Cultura
17 dicembre, 2025Nel suo nuovo romanzo il grande scrittore britannico gioca tra il passato, il futuro e il tempo in cui viviamo. Una vicenda ambientata nel 2119, quando guerre nucleari e inondazioni hanno dimezzato la popolazione mondiale: “La memoria è inaffidabile, ma serve a renderci migliori di quello che siamo”
"Quello che possiamo sapere”, il nuovo romanzo di Ian McEwan, traccia una riflessione appassionante sulla nostalgia e più precisamente sulla nostalgia del tempo presente, il nostro, che nella sua incessante evoluzione tecnologica, nel suo essere complesso e sovradimensionato getta davanti ai nostri occhi l’ombra della sua distruzione imminente.
Il protagonista di questo romanzo (pubblicato da Einaudi, nella traduzione di Susanna Basso; pp. 376; € 21) è Thomas Metcalfe, uno studioso di letteratura inglese alle prese con la ricerca di un tesoro nascosto: un poema scritto nel 2014 dal poeta Francis Blundy per il compleanno della moglie Vivien e andato perduto dopo una festa tra amici. Il tempo della narrazione è tuttavia spostato nel futuro.
Il professor Metcalfe vive nel 2119, quando le guerre nucleari e le inondazioni dovute al riscaldamento globale hanno dimezzato la popolazione mondiale, il Regno Unito è diventato un arcipelago di isolotti e c’è stato un netto downshifting della tecnologia. “Quello che possiamo sapere” è fantascienza senza la scienza. È un modo per guardare all’oggi. Ma per raccontare il presente è stato necessario trasformarlo in passato: trasformarlo cioè nell’oggetto della nostra nostalgia.
Ian McEwan, perché l’oggi è irraccontabile a distanza ravvicinata?
«Volevo trovare un modo per raccontare il presente. Mi sono proiettato avanti nel tempo tenendo conto di tutte le responsabilità morali del futuro che stiamo costruendo. E allo stesso tempo ho immaginato di guardarmi indietro attraverso il filtro della disperazione combinata alla celebrazione. Cercavo di intercettare una sorta di ambiguità: è stato possibile solo mettendo una distanza. Al contempo, mi interessava parlare di come sarà l’umanità nel futuro, di come saranno le storie di amore; curiosamente questo manca nelle opere di fantascienza».
“Quello che possiamo sapere” è un grande libro e una riflessione sulla memoria. Da un lato c’è il proliferare di dati conservati che l’era tecnologica al suo massimo livello porta con sé. Fotografie, social media, messaggi digitali, cronologia di ricerca su internet. Dal lato opposto di questo ragionamento c’è l’oblio. L’Alzheimer di cui soffriva Percy, il primo marito di Vivien, come apprendiamo dai suoi diari. Tra questi opposti che cos’è la memoria?
«Pensiamo al tema della memoria attraverso la Storia, prendiamo per esempio il caso di uno studioso anche solo fino a quarant’anni fa. Supponiamo che si tratti di un biografo letterario. I materiali a sua disposizione sono l’opera dello scrittore o della scrittrice che sta studiando e la corrispondenza. Questo vale soprattutto per il diciannovesimo secolo: le lettere sono davvero il motore che alimenta la ricerca. Guardiamo la differenza per esempio tra una lettera di Flaubert e le mail o i messaggi che ci scambiamo tra noi oggi. C’è una grandissima differenza della qualità dell’informazione. E la differenza la fa anche la velocità di scambio. Le lettere, una volta, arrivavano dopo tre o quattro settimane. Questo dava tempo per la riflessione. L’abitudine alla riflessione si è andata perdendo nei nostri scambi. La relazione che abbiamo oggi con il passato da un lato si avvale di un vantaggio enorme, proprio dal punto di vista della quantità di cose che possiamo sapere sulla vita quotidiana del passato, ma al tempo stesso c’è anche tantissimo che va perduto».
La memoria è sostanzialmente un atto narrativo?
«La memoria - lo abbiamo scoperto nei secoli - è inaffidabile. La memoria spesso serve a rassicurare noi stessi, a renderci migliori di quelli che siamo: questo significa che da un certo punto di vista il biografo ricopre una posizione affascinante».
Thomas è ossessionato da un poema perduto e da una festa del passato. Sa tutto degli invitati, è in possesso di centinaia di informazioni che la tecnologia ha trattenuto. Quelle del passato sono persone sconosciute che «ha finito per amare». Cos’è la nostalgia per quello che non si è vissuto?
«Credo sia una malattia che affligge tutte le persone che amano la letteratura. Volevo attribuire al mio protagonista questa sorta di amore totale per lo scrittore che sta studiando. Tom pensa di poter amare anche Vivien Blundy, la moglie dello scrittore: immagina perfino di poterla sposare. Allargando lo sguardo, quando ami profondamente uno scrittore vissuto secoli fa, riesci anche a misurare tutto quello che del passato è andato perduto. Mi accade quando leggo Wordsworth oppure Madame Bovary, che oltre a raccontare il dramma di una donna è anche una storia rurale: dà testimonianza di paesaggi rigogliosi ormai scomparsi. Thomas guardando al passato si ritrova in un contesto che a breve sarà distrutto dal riscaldamento globale, dalle inondazioni, dalle guerre nucleari. Guardando indietro, non si capacita della stupidità delle persone che, nonostante siano consapevoli di una rovina imminente, non fanno nulla per impedirla. Ai suoi occhi gli uomini e le donne di cent’anni prima sono una popolazione estremamente intelligente e estremamente stupida allo stesso tempo. Eppure, prova un’attrazione per loro: in questa ambiguità c’è un fascino che io stesso provo in prima persona».
Esistono autori di cui conosciamo le opere senza averle lette. L’“Odissea”, il “Don Chisciotte”, la “Divina Commedia”. Quando succede vuol dire che quell’autore ha fatto qualcosa di immenso. In qualche modo capita anche a Francis Blundy con il suo poema perduto.
«Devo confessare di avere un’ambizione segreta: quello di scrivere un libro di cui tutti hanno sentito parlare, ma nessuno lo ha letto. Qualcosa che riesca a penetrare in quel modo nella cultura di un tempo. Il poema che Blundy ha dedicato alla moglie Vivien è scomparso: è diventato come una sorta di bene sociale estremamente desiderabile proprio perché al di là della portata di tutti. Ha un peso e una longevità che non avrebbe raggiunto se fosse stato letto. Noi tutti attribuiamo un valore infinito a quello che perdiamo. Questo desiderio dell’ineffabile è insito nella natura umana».
In effetti cercare qualcosa che non appartiene più al mondo dei sensi ma molti credono che esista è una questione di fede. Qual è, se c’è, il potere spirituale della letteratura?
«Parafrasando un verso di Philip Larkin in cui dice che se dovesse inventare una religione farebbe l’uso dell’acqua, io direi che se dovessi inventare una religione farei l’uso della letteratura. Perché solo la letteratura riesce davvero ad abbracciare e a comprendere tutto ciò che desideriamo, tutto ciò che temiamo, detestiamo, amiamo. Non amo la parola “spirituale”, perché mi considero un materialista. Ma sento una forte connessione con la terra, con l’acqua, con la luce. Nel mio studio i libri sono in ordine alfabetico. Si comincia dalla A con Martin Amis poi si va avanti e si arriva alla B e lì si incontra la Bibbia che sta insieme alle altre opere di fiction; poi andando avanti con la C si incontra il Corano. I grandi scritti spirituali fanno parte della letteratura mondiale, sono bellissime opere letterarie, che uno creda oppure no».
Parliamo di Vivien. Anzi, possiamo parlare di Vivien?
«Questo romanzo è un campo minato di spoiler e devo stare molto attento a non dire troppo. La prima parte racconta della ricerca del poema perduto. Nella seconda parte del libro il fuoco si sposta nel passato attraverso lo sguardo di Vivien, la moglie di Blundy. La cosa di cui sono più orgoglioso è proprio il momento in cui si volta pagina e si passa dalla prima alla seconda parte. Non viene spiegato nulla. Si viene trasportati in un mondo in cui si conoscono alcuni elementi, ma tutto quello che abbiamo dato per scontato fino ad allora viene completamente cancellato. Credo che Vivian Blundy, in cinquant’anni di scrittura, sia il mio miglior personaggio femminile. Lei rappresenta la verità. O meglio ci si avvicina. È una donna tosta ma con molte fragilità, è una donna dal gioioso appetito sessuale. È un personaggio che ha una sua onestà, anche se è una donna che tradisce, è mendace. Però, come tutte le persone che tengono un diario, è consapevole delle sue mancanze. È proprio da lei che viene il titolo: quello che possiamo sapere è molto, ma c’è sempre una grandissima inconsapevolezza che fa da contrappeso. È il massimo che posso dire su di lei».
Albert Camus, che viene citato più volte nel romanzo, indicava come via il dovere alla chiarezza espressiva per i momenti difficili della Storia. È questa la via che segue la sua scelta stilistica?
«Albert Camus, nel 1955, dopo aver vinto il premio Nobel, in un momento storico in cui tutto l’orrore dell’Olocausto stava diventando sempre più chiaro agli occhi dei contemporanei e in cui il pericolo di uno scontro nucleare avrebbe potuto cancellare l’essere umano, tenne a Uppsala un discorso e disse con grande chiarezza che quando si vive in tempi così pericolosi la letteratura deve avere una qualità classica, deve essere compresa universalmente. Più sono difficili i tempi e più è necessario che la letteratura sia alla portata di chi la legge. Non ci devono essere ambiguità. Il mondo deve essere nominato. Ed è esattamente su queste parole che io pianto la mia bandiera».

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