Secondo Daniela Simonetti, presidente dell’organizzazione Il cavallo Rosa, lo sport è uno degli ambiti professionali in cui le donne sono più riluttanti nel denunciare le violenze perché vigono comportamenti di tipo omertoso. Anche le storie arrivate a #lavoromolesto mostrano la necessità di invertire la tendenza

Fabiola aveva 21 anni quando ha iniziato il tirocinio in un piccolo centro riabilitativo, nel modenese. Seguiva i pazienti durante le terapie in piscina, insieme al responsabile che, più o meno, aveva il doppio della sua età. «Usciamo stasera? Ti porto in un posto carino» chiedeva lui insistentemente, alla fine di quasi ogni turno. «Un giorno come tanti, dopo aver ricevuto l’ennesimo rifiuto, lui prende e mi tira una pacca sul sedere. Davanti a tutti i pazienti che sono rimasti lì a guardare. Nessuno ha detto niente, nemmeno io. Ero pietrificata ma sono morta dentro». Fabiola non ha mai più parlato dell’accaduto, dimenticato per non invalidare il tirocinio e perdere i crediti che le servivano per laurearsi. Un episodio simile ha segnato anche il suo secondo stage curriculare, l’anno successivo all’interno di una palestra.

 

«Lo sport è uno degli ambiti professionali in cui le molestie finiscono troppo spesso nel silenzio» spiega Daniela Simonetti, presidente di Il Cavallo Rosa/ChangeTheGame, un’organizzazione di volontariato nata nel 2018, impegnata a proteggere atlete e atleti da violenze e abusi sessuali, emotivi e fisici. «Mentre, per fortuna, nella società civile si sta creando una coscienza solida che condanna gli autori delle violenze e spinge più donne a denunciare, nello sport la situazione in Italia è rimasta bloccata a oltre cinquant’anni fa. Le regole sono vecchie, il linguaggio cristallizzato, sussistono comportamenti di tipo omertoso che pongono denunciante e denunciato sullo stesso piano, e tante hanno timore di raccontare le molestie subite, per paura di essere costrette a interrompere la carriera. Questo vale soprattutto per le atlete ma anche per le operatrici del settore».

Un’indagine realizzata da DAZN in collaborazione con l’istituto di ricerca Blogmeter, resa pubblica lo scorso novembre, in occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, ha mostrato come le differenze di genere siano discriminanti anche per le atlete e gli atleti più conosciuti. Dall’analisi delle conversazioni sul web e dei commenti ai post, circa 570 mila messaggi complessivi, tra il 2019 e il 2020, di una calciatrice, una pallavolista, una nuotatrice e un calciatore, un tennista e un pallavolista, è emerso che mediamente l’11 per cento dei commenti ai contenuti diffusi da atlete donne sono molesti. Percentuale che sale al 22 per cento, un commento su cinque, se il contenuto postato dall’atleta (donna) è un selfie, come un momento leggero e non legato allo sport. Per gli uomini, invece, i commenti volgari o offensivi costituiscono circa il 6 per cento del totale. A cui si deve aggiungere un altro 4 per cento di insulti rivolti ai familiari o alle persone care che fanno parte delle vite dei protagonisti, che di frequente sono donne, come madri, mogli, o fidanzate.

«Deve essere previsto un pacchetto di norme per tutelare le atlete che desiderano denunciare. - conclude Simonetti - In Italia i regolamenti delle federazioni sportive non prevedono esplicitamente di punire l’illecito di violenza sessuale o di abuso di minori. Quindi non c’è sanzione. È necessario fare formazione capillare e determinare un cambio culturale e normativo netto. Dopo l’indignazione è arrivato il momento di passare ai fatti».