Le storie di Livia e Samuela, arrivate in redazione testimoniano l’estenuante lotta delle donne contro i pregiudizi nei luoghi di lavoro. Continuate a mandarci le vostre testimonianze di #lavoromolesto

La bellezza femminile è uno strumento per il successo. La pensa così il 63 per cento dei maschi adolescenti intervistati per una ricerca che Ipsos ha condotto con Save The Children, sulla percezione degli stereotipi di genere in Italia, nel 2020. Per Daniela Fatarella, direttrice generale dell’organizzazione internazionale che si batte per migliorare la vita dei bambini, i pregiudizi di genere sono fortemente condizionanti sin dall’infanzia, così si cementificano e confermano nell’età adulta. «Le ragazze crescono tra mille inviti a minimizzare. Mettere la vittima sul banco degli imputati, sottovalutare i comportamenti aggressivi, definire confini sempre più labili per la violenza sono azioni che servono a rendere accettabile l’inaccettabile». Ammettere che si tratti di molestia solo nei casi più gravi, con conseguenze fisiche evidenti, e non anche quando ci sono pressioni psicologiche, ricatti economici, altri tipi di vessazioni, fa prosperare i comportamenti violenti e consolida gli stereotipi fino a trasformali in normalità.

Come racconta Livia, che lavora da 21 anni, la lotta quotidiana di una donna contro i pregiudizi di genere può diventare estenuante. «Pago da tanto tempo lo scotto del mio non essere accondiscendente. Non sono forzatamente gentile, non accetto le avances dei colleghi. Ogni giorno mi batto contro i soprusi, rimandando al mittente lo schifo che ricevo».

Livia ha iniziato a lavorare a 26 anni, dopo un master, in una piccola banca del sud d’Italia. All’inizio filava tutto liscio, i problemi sono iniziati quando un istituto più grande ha acquisito l’azienda «i dirigenti, per cui ancora lavoro, hanno pensato di aver comprato anche le persone insieme alla banca. I capetti di turno hanno iniziato a  usarci per soddisfare il proprio ego e per svolgere quei compiti che loro non avevano voglia di fare. Ho capito subito che tipo di sistema maschilista stavano impostando e mi sono rifiutata di accettare le loro regole». Così Livia, certa di non voler scendere a compromessi, ha dovuto rinunciare a molti aspetti di se stessa per mantenere il lavoro. «Volevo rendermi invisibile, nonostante il mio aspetto fosse notevole. Ho smesso di indossare le gonne e i tacchi che tanto amavo. Ho tagliato i capelli e nascosto il mio seno prorompente». Per un lungo periodo ha anche rinunciato a ogni possibilità di avanzamento di carriera perché accadeva in continuazione che le venisse chiesto qualcosa in cambio. «In uno degli ultimi eventi pubblici prima del Covid - racconta - uno dei dirigenti mi ha sussurrato all’orecchio “non sai che ti farei”». Livia l’ha fulminato con lo sguardo senza bisogno di parole. «Che credi? - ha risposto il dirigente innervosito - C’è la fila di donne che mi aspettano fuori dalla porta». «Penso che sia la coda per il bagno» ha ribattuto lei prima di allontanarsi. «Tutto questo va avanti da anni. Mi chiedo se nelle aziende in cui il maschilismo è molto radicato ci sia una sorta di passaparola per torturare la malcapitata di turno».

Anche per Samuela gli ultimi due anni di lavoro sono stati un inferno. Vessazioni, offese, minacce e battute ambigue da sopportare ogni giorno, da parte di superiori e colleghi che non riuscivano ad accettare il suo ruolo di responsabilità. In particolare, uno le ha rovinato la vita, privata oltre che professionale «perché si sa che chi è frustrato per non aver ottenuto ciò che avrebbe voluto, può arrivare a raccontare anche storie inventate». Stefano si era avvicinato a Samuela facendole i complimenti per il suo aspetto. Poi è passato ai commenti provocanti, alle battutacce e, infine, alle offese «si sentiva in diritto di dire di tutto quando lo rifiutavo. Diventava aggressivo, mi screditava davanti ai colleghi, mi urlava “puttana”. A volte si permetteva di seguirmi fino a casa». Stanca, dopo due anni di sopportazione a denti stretti, Samuela si è rivolta al presidente dell’azienda, gli ha raccontato quello che stava succedendo e come si sentiva. «Nemmeno l’evidenza e le prove l’hanno costretto a darmi ascolto. Stefano era troppo amico del presidente per esser mandato via. Io, invece, ero solo una rompiscatole che non stava alla volontà di un uomo. Così ho perso il lavoro».