Il virus continua a mutare. Zone rosse ovunque. Scuole di nuovo chiuse. Crisanti porta la Sardegna in zona bianca, ma il Comitato tecnico scientifico continua a ignorare la sua strategia

Anche con un nuovo governo, la strategia all’italiana ha fatto sbocciare zone rosse lungo tutta la penisola. Esattamente come è accaduto un anno fa al Nord, all’inizio della prima ondata. E poi ancora in autunno, con il bis della seconda. Così come sta avvenendo ora, che sentiamo montare sotto di noi il frangente del terzo atto della pandemia. Avere un affollato comitato tecnico-scientifico nazionale e infilare per tre volte la stessa strada meriterebbe un Lebon, cioè il premio Nobel al contrario.


Solo la Sardegna ha puntato nella direzione opposta. Certo, è favorita dall’isolamento, dalla scarsa densità della popolazione, dal clima ventoso. Eppure prima che arrivasse il professor Andrea Crisanti, se la passavano male pure lì. Poi è partita la campagna “Sardi e sicuri”. Come in Veneto un anno fa: tamponi a tappeto tra la popolazione, per «arrivare con fasi sequenziali», spiegava l’azienda sanitaria regionale qualche giorno fa, «a un azzeramento della circolazione virale in un tempo ragionevolmente breve». Lo status di zona bianca, a inizio settimana, è stato raggiunto grazie a questa unica, semplice strategia. La stessa che gli allevatori di tutta Italia mettono in pratica ogni qual volta si infetti un loro prezioso animale: si testa, si traccia, si isola. Davanti al coronavirus Sars-CoV-2 e alle sue varianti, anche noi che camminiamo su due gambe siamo soltanto mammiferi da colonizzare.


Gli agenti patogeni non si interessano di governi, ideologie, religioni. La Sardegna ha un presidente leghista, Christian Solinas. Così come il Veneto di Luca Zaia, che si è prima servito del professore dell’Imperial College di Londra e poi l’ha licenziato. Un classico esempio di meritocrazia di casa nostra. Chi dimostra dai risultati la sua preparazione deve andare all’estero, come conferma lo stesso curriculum londinese di Andrea Crisanti.


Anche il cervello politico della Lombardia è sempre leghista. Eppure da quando sono stati ingaggiati l’assessore al Welfare, Letizia Moratti, e l’ex capo dipartimento della Protezione civile, Guido Bertolaso, la Regione sembra guidata dal motto del grande Giovannino Guareschi: contrordine compagni! La precedenza del vaccino agli ultraottrantenni. Contrordine compagni, la precedenza agli over sessanta che abitano ai confini della variante inglese, tra le province di Bergamo e Brescia. Contrordine compagni, adesso vacciniamo anche gli insegnanti. Tutto questo in pochi giorni.


Medici di famiglia e farmacisti devono raccogliere le prenotazioni, ma hanno un po’ perso il filo del discorso. «Non sappiamo nulla neanche noi», risponde un dottore lombardo su whatsapp alle 7.40 del mattino: «Soltanto questa notte, grazie a un preside, è arrivata questa notizia...». Segue il pdf di un documento: «A tutto il Personale della Scuola», annuncia pomposamente, «per il tramite dei Dirigenti scolastici e dei Coordinatori didattici... L’Ufficio scolastico regionale per la Lombardia e la Regione Lombardia comunicano l’avvio della campagna di vaccinazione anti Sars-CoV-2/Covid-19, rivolta a tutto il personale scolastico che lavora nelle scuole della Lombardia». Testuale.


Ci si può iscrivere dalle 8 di mercoledì 3 marzo. Basta digitare vaccinazionicovid.servizirl.it. Anche se quel “rl” alla fine della parola “servizi”, sta mettendo alla prova la vista e il rosario vernacolare di migliaia di persone. Ma almeno, per quanto riguarda la scuola, il sito è sincero: «Di prossima attivazione!», c’è infatti scritto che sono già le due del pomeriggio del giorno inaugurale.


Ma da quando l’Italia vuole adottare la strategia Johnson, ispirata al cognome del premier inglese e non alla marca del prossimo vaccino, la seconda dose va fatta oppure no? «Non l’ho ancora capito», ammette un cinquantenne in coda in un ospedale della provincia appena fuori Milano, entrato nell’elenco per ragioni di salute: «Oggi è la data del richiamo e mi sono presentato. Al telefono non erano sicuri. E anche ora che sono in fila, fino a quando non mi inseriranno l’ago non posso dire di esserne certo». Gli altri davanti vengono comunque vaccinati. Poco prima di mezzogiorno è il suo turno: sì, per ora si prosegue con la doppia dose.


Dopo l’abbuffata di zone gialle, ma con contagi da zona arancione, ecco la grande novità: d’ora in poi, le nuove restrizioni cominceranno sempre di lunedì. Così sabato e domenica migliaia di persone potranno andare a infettarsi sul lungomare, nei locali, o sui Navigli. Esattamente come un anno fa, con le serate da coronaspritz che ci hanno portati al lungo lockdown. Il prezzo lo stiamo già pagando. Meglio un weekend di movida che un anno scolastico regolare, pensa il popolo della notte. Piuttosto che permettere a bar e ristoranti il servizio d’asporto e compensare con aiuti statali quanti fanno più fatica, preferiamo l’andatura da tamponamento a catena: aprire-aprire-aprire, secondo il mantra di Matteo Salvini, per poi chiudere-chiudere-chiudere. E ora che la Lega sostiene il premier Mario Draghi, il mantra è praticamente una regola.


La via di mezzo però, un po’ di comuni chiusi e quelli accanto aperti, non è sufficiente. La strategia a macchia di leopardo, cominciata il 4 febbraio con il primo grosso focolaio di variante inglese a Corzano in provincia di Brescia, non ha infatti fermato il virus. Le zone rosse o le nuove zone arancione rinforzato si sono allargate come chiazze di vernice sull’acqua. E la prima a pagarne è sempre la scuola. «Almeno finora se c’era da stare a casa, stavamo a casa tutti e ci si collegava a distanza», osserva una professoressa delle medie che chiede l’anonimato. Con la nuova regola, però, la scuola non è più uguale per tutti. Nei comuni sopra i 250 positivi ogni centomila abitanti si chiude, sotto si resta aperti. E gli studenti pendolari che abitano nelle zone rosse e vanno a lezione in una zona gialla o arancione cosa fanno?


È il caso dell’area metropolitana di Milano, dove sono scattate restrizioni nei comuni di Melzo, Vimodrone, Pozzuolo Martesana, Vignate, Rodano. Ma non nei paesi in mezzo. La soluzione è un antipatico porta a porta nelle classi. Entra il delegato del preside, chiede i nomi di quanti arrivano dalle zone confinate e invita quegli alunni, soltanto quelli, a stare a casa. Faranno didattica a distanza, come se fossero in isolamento. Mentre gli altri continuano ad andare a scuola. I consigli di istituto, inorriditi dalla nuova soluzione, si stanno mobilitando. Anche perché per un insegnante è più complicato collegarsi in Dad da scuola: il livello tecnologico e la velocità di connessione di molti istituti è troppo arretrato.


Questo sistema, ora adottato dal nuovo governo in tutta Italia, è già fallito a Brescia. Non è infatti riuscito a contenere il virus quando era limitato a Corzano, un paese di appena millequattrocento abitanti: da lì in pochi giorni la variante inglese si è infatti trasmessa a tutta la provincia.


Dimentichiamo le due caratteristiche fondamentali del Covid-19. Il 42 per cento dei contagiati non sa di esserlo, perché è asintomatico. E ogni positivo scoperto oggi, tenendo conto del tempo di incubazione, si è infettato una decina di giorni fa. Un periodo in cui è andato al lavoro, ha incontrato persone oppure, se è uno studente, si è seduto in classe. Resta quindi fondamentale anticipare la diffusione dell’epidemia con un alto numero di test molecolari. Il professor Crisanti lo ha ripetuto anche in questi giorni a chiunque gli chiedesse un commento sul successo in Sardegna. Un risultato che si sarebbe potuto estendere a tutta Italia «se si fossero fatti i giusti investimenti, come la creazione di una struttura per i tamponi molecolari». Un principio che in Lombardia, la regione più colpita dalle prime due ondate con migliaia di morti, sembra ormai dimenticato.

 

L’attenzione dell’assessore Moratti è concentrata sui vaccini, che ovviamente non servono a diagnosticare i nuovi casi e diventano efficaci soltanto a distanza di settimane. Così come il suo predecessore, Giulio Gallera, sperava nell’efficacia dei test sierologici, che però non rilevano i casi contagiosi nella fase iniziale dell’infezione. Gallera comunque è giustificato: a maggio 2020 era ancora convinto che servissero due positivi per infettare una persona.


Un ripasso delle nozioni basilari servirebbe a buona parte dello staff regionale che continua a impedire l’applicazione dei protocolli internazionali, gli stessi seguiti da Andrea Crisanti in Veneto e in Sardegna. È il caso di Valgoglio, un piccolo paese di montagna in provincia di Bergamo. A fine febbraio il sindaco, Angelo Bosatelli, chiede all’Ats, l’azienda sanitaria, di sottoporre a test i seicento abitanti, dopo l’improvviso aumento di casi positivi nella zona. «Ma l’Ats ha sconsigliato questa strategia», racconta il sindaco in quei giorni, «perché un controllo massimo potrebbe portare all’adozione di misure molto stringenti per l’intero paese e tale scelta va considerata come estrema».


L’incompetenza della risposta non ha impedito a Valgoglio di diventare a inizio marzo zona rossa, con 29 positivi e sei persone ricoverate in ospedale, di cui una in gravi condizioni. Ancora due mesi di pazienza e vedremo se con la terza ondata, tra tante nuove restrizioni in tutta Italia, la Regione Lombardia saprà ancora una volta battere se stessa.