L’omotransfobia tra le mura di casa mette sempre a nudo gli istinti peggiori. Quelli che si mescolano dentro questo crimine d’odio: crudeltà, indifferenza, cinismo. Mentre il dibattito sulla legge Zan impazza, l’Italia si divide in due gruppi. Una parte in difesa delle persone Lgbt, l’altra in difesa della cosiddetta “famiglia tradizionale” minacciata, secondo l’estrema destra, proprio dal ddl. Ma cosa succede quando a discriminare è proprio la famiglia, quando l’odio cresce dentro le mura di casa? Sei omosessuale? Ti rifiuto. Le storie di non accettazione, sia palese che subdola, sono all’ordine del giorno.
A. non si lamenta e non piange. Anche se è da un po’ che non fa più di un pasto al giorno e porta lo stesso abito da un mese. È una ragazza trans di vent’anni. I suoi genitori l’hanno sbattuta fuori casa dopo aver intrapreso il percorso di transizione, dal genere maschile a quello femminile. “Hai qualcuno che ti può ospitare?”. Si incupisce soltanto un attimo ma poi risponde decisa: “No, posso farcela da sola”. Conversazioni simili sono all’ordine del giorno per chi si occupa in Italia di omotransfobia. Vite che trovano ogni tanto, non sempre, sostegno grazie alle case rifugio per le persone Lgbt in difficoltà. Quattro i centri di accoglienza in tutta Italia: Milano, Torino, Roma, Napoli. Pochi posti, tutti pieni. Qui le persone affidano agli altri, cronisti o attivisti, messaggi da far arrivare a fratelli e sorelle o ai nonni spesso ignari delle sorti dei nipoti: «Ho fatto contattare il mio fratellino da alcune persone, voglio che sappia che non è vero che sono scappata fuori casa. Mi hanno cacciato. Ma deve sapere che me la cavo e gli voglio bene, anche se non mi permettono di vederlo». Sono storie che arrivano da tutto il paese e che disegnano una mappa dell’Italia degli affetti vacanti. Quella che ha abbandonato i propri cari alla disperazione, scritta con l’odio e con l’ignoranza.
Siamo a Casa Arcobaleno, l’abitazione aperta a Milano nel 2019 dalla cooperativa sociale Spazio Aperto Servizi, in collaborazione con il Comune. Qui possono trovare un rifugio sicuro e protetto i ragazzi e le ragazze discriminati a causa del loro orientamento sessuale o identità di genere. Aggressioni, rifiuti e allontanamenti non si sono fermati neanche durante l’anno della pandemia. Come racconta Roberto, 22 anni. Una storia di resistenza: arriva in Italia a sette anni con sua madre, pronti per una nuova vita. La madre si sposa con un uomo italiano che dopo il matrimonio sceglie di adottarlo. Poi il momento in cui cambia tutto: «A 13 anni faccio coming out. Subisco violenze, intimidazioni». Con sé ha un faldone pieno di fogli che riportano tutti gli accessi fatti al pronto soccorso, lì dentro ci sono dieci anni di omofobia in famiglia. «A 17 anni mi trovo un lavoretto part-time. Studio e lavoro. Lo faccio per essere indipendente ma anche per restare fuori casa più possibile. Ai miei non interessava nulla di me. Mi sono pagato anche l’università. Ma è arrivato il lockdown e mi ha costretto in casa con loro. Niente lavoro, niente vita in ateneo. A dicembre dopo l’ennesima lite e gli ennesimi insulti mio padre mi ha spezzato le dita delle mani. Sono scappato». Cerca aiuto Roberto e lo trova dentro Casa Arcobaleno. Pochi giorni fa ha concluso il suo percorso di laurea con ottimi voti: «Adesso riprendo la mia vita. Troverò un lavoro ma quello che è successo non lo dimentico. L’indifferenza di mia madre è dolorosa. Ma penso a mia sorella, più piccola, nata dal matrimonio tra mia madre e quest’uomo. Sto portando avanti un’azione legale per tutelare anche lei. Non mi accetta, è cresciuta credendo che quello che è successo sia giusto. Le hanno insegnato che l’omosessualità è una scelta sbagliata, da punire. Lei, almeno lei, spero di recuperarla».
Roberto non è solo. Qui c’è anche Stefano «Sono rinato due volte” dice. Prima dopo il rifiuto della famiglia, poi con la fine di una relazione. Ci sono coming out che sono vere proprie scelte di vita. Portano a un bivio: andare o restare. Dentro o fuori il nucleo familiare ma anche dentro o fuori la coppia. È difficile chiedere aiuto per i maltrattamenti subiti e “dover” dire di essere gay. Partner abusati all’interno di una relazione omosessuale esistono e spesso trovano rifugio dentro queste case, non altrove. La sua storia mostra che l’indifferenza è “solo” un anello, micidiale, della catena di omofobia alimentata dal pregiudizio. Dinanzi alla violenza subita da un partner dello stesso sesso la società mostra spesso tutta la sua indifferenza. La persona Lgbt abusata all’interno di una relazione rischia di imboccare una strada antichissima: il silenzio. E resta legata al partner abusante che all'inizio aveva scelto ritenendolo affidabile. Lo racconta bene Stefano che respinto dalla famiglia per il suo orientamento sessuale, dopo molta difficoltà e sofferenza trova sostegno nel suo compagno. Una storia qualsiasi nell’Italia di oggi: si innamorano, si uniscono civilmente. Ma il rapporto non funziona. Succede in qualsiasi coppia etero o gay. La disparità economica può pesare. Poi si degenera. La gelosia, il controllo di cellulare e social. La violenza. «Era una relazione di dipendenza psicologica ed economica», racconta quasi vergognandosene. «Dopo l’ennesima scenata mi butta fuori di casa. Lavoravo con lui. Mi sono trovato senza nulla: un lavoro, un tetto. Senza una rete. Non avevo un posto dove ritornare. Una famiglia a cui rivolgermi». Dopo svariate ricerche, fa domanda per entrare in Casa Arcobaleno, ci riesce. «In poco tempo ho trovato lavoro anche se temporaneo». Con la speranza di un futuro ritrova anche la forza di innamorarsi nuovamente. «Adesso mi sono rialzato. Sono uscito fuori. Di nuovo. Pronto a iniziare una nuova vita».
La casa, a indirizzo segreto, ospita attualmente ragazzi e ragazze dai 18 ai 30 anni: «Possiamo ospitare fino a sei persone», spiega Giovanni Raulli, direttore area residenzialità, housing ed emergenze sociali della cooperativa. I ragazzi e le ragazze spesso comprendono che sono i genitori in difficoltà: «Anche loro hanno bisogno di aiuto».
M, ha 22 anni romana. Non-binaria. Non si sente “nata nel corpo sbagliato”, ma vive il corpo in cambiamento, anche sentimentalmente. Lo confessa a sua madre. La tensione sale, la madre le dice di voler comprendere. Ma le barricate si alzano. E tutto si complica perché, dopo i primi momenti, di sessualità non si parla più apertamente. Allusioni, chiusure. Muri. E infine l’abbandono. «Mia madre mi ha proposto un weekend a Milano da una sua amica. Era un modo per riallacciare i rapporti. Almeno questo è quello che ho pensato. Una volta arrivate lì mi ha mollato. Se ne è tornata a Roma e mi ha detto di non farmi più vedere. La sua amica mi ha detto il giorno dopo: mi spiace ma io non posso fare nulla, devi lasciare anche casa mia. Mi sono ritrovata per strada a 20 anni. Tramite i social ho scoperto che qui avrei potuto trovare un tetto sopra la testa. Non mi bastava un posto al caldo, mi serviva un posto che mi comprendesse e accettasse per quello che sono».
Un ostacolo maggiore per i genitori è l’accettazione dei figli che si rivelano transgender: «Nella vita succede che non ti i tasselli siano al posto giusto, a me è successo ad ottobre 2020, quando qualcuno ha deciso di prendere il puzzle della mia vita e buttarlo all'aria con tutto il tavolino», a parlare è M. 25 anni. È un ragazzo trans “ftm” cioè female to male. Si dice così quando si transita dal genere femminile al maschile. Quel qualcuno è la sua famiglia. «A seguito di un brutto litigio in casa mia, che vedeva coinvolta mia madre, mia sorella, la mia ragazza e me, sono stato allontanato dal nido e mai l'avrei creduto possibile. In quel caso l'opzione è solo una: sopravvivere. Sopravvivere perché, in tempi di lockdown e zone rosse, non è facile nemmeno trovare un lavoro, per mantenersi. Io, personalmente, ho dovuto lasciare il mio paese per avere un tetto sulla testa, mi sono ritrovato, a 25 anni, a conoscere il mio genitore per la mia prima volta». M. conosce così la depressione. Essere rifiutati dai genitori porta a perdere stima e fiducia in sé stessi, ci si sente responsabili del dolore causato ai genitori e del rifiuto subito. Poi nel novembre 2020 perde anche l’unico “affetto stabile”, la sua ragazza: «Ha deciso di lasciarmi a seguito del mio coming out come ragazzo ftm. Essere persone transessuali fa paura e, ancora di più, lo fa l'essere e il dover affrontare il tutto da soli». Ma qualcosa succede: «La gente bella esiste a questo mondo. Un amico conosciuto qualche anni prima sui social, mi ha offerto un letto, un po' di serenità in un ambiente sano che è la sua famiglia. Sono stato con loro due settimane, a Milano, finché non sono stato inserito nel progetto di Casa Arcobaleno. Ora posso respirare sentendomi libero di poterlo fare perché ho attorno gente che mi supporta, che mi accetta, che capisce il peso che questa condizione comporta. Io sono un ragazzo trans, non è giusto che debba aver paura o vergognarmene, non c'è niente di sbagliato».
Silenzi, esclusioni, omissioni. Di genitori che continuano a rifiutare i figli lgbt, Fiorenzo Gimelli ne ha conosciuti e ne cosce parecchi. Un padre che lotta, Presidente dell’Agedo, (Genitori, parenti, amici di persone lesbiche, gay, bisex e trans*) l’associazione che dal 1992 cerca di dare una mano ai genitori che di fronte al coming-out si trovano persi: «La situazione è migliorata rispetto a quindici anni fa» spiega Gimelli: «Ma c’è un clima culturale che non permette di fare un avanzamento sociale. C’è ignoranza diffusa, nessuna informazione neanche nelle scuole dove non si fa educazione sessuale o all’affettività. Gli stereotipi crescono». Il coming out dei figli può portare a una riscoperta del ruolo genitoriale: «Quando i genitori vengono a conoscenza dell’identità dei propri figli, spesso la prima reazione è di incredulità, la terra frana sotto i piedi, a volte c’è rabbia e vergogna. Sono sentimenti legittimi. Ma questo perché riceviamo informazioni distorte da anni di pregiudizi. La reazione invece dovrebbe essere quella di profonda gratitudine verso chi ci regala la propria autenticità, anche se questa non era prevista, anche se all’inizio sembra incrinare tutti i piani, i progetti, le fantasie che avevamo immaginato. In realtà si riscopre la bellezza della relazione autentica e la volontà di essere di nuovo famiglia». Sulla legge contro l’omotransfobia al palo in Parlamento aggiunge: «È un segnale. Dovrebbe essere approvata velocemente per favorire la cultura del rispetto e dell’inclusione di tutti. Le famiglie sono quegli intrecci relazionali di amore, aiuto, conforto, sostegno, condivisione, stimolo all’interno dei quali chiunque dovrebbe sentire di essere giusto e di essere al posto giusto. Sono queste le famiglie da difendere, indipendentemente dai loro membri».