Con il Covid-19 il numero di minorenni detenuti è calato ma tra Dad e sospensione delle attività di recupero la vita è peggiorata. Due terzi sono in attesa di giudizio, la metà stranieri. Manca il personale e crescono il disagio la tensione

«È stata come una seconda pena. All’inizio la paura era davvero molta ed era impossibile avere contatti con l’esterno per la mancanza di dispositivi e connessione. Poi è subentrata la sensazione di essere dimenticati, isolati nell’isolamento generale». A metà febbraio Gaetano è uscito da uno dei due Ipm (Istituti penali per minorenni) della Campania, dopo aver scontato circa sei mesi di detenzione per furto a mano armata. Poco più che maggiorenne, Giovanni ha già commesso altri reati e ha scontato altre condanne ma mai come in questo periodo il carcere minorile lo ha segnato.

 

Una piccola stanza, una brandina e intorno mura che con la pandemia sembrano essersi ispessite. All’ombra dei problemi degli istituti penitenziari per adulti, in questo periodo di emergenza sanitaria, anche la vita nelle carceri minorili ha subito un cambiamento traumatico. Gli Ipm ospitavano al febbraio scorso poco più di 370 ragazzi, a fronte dei circa 13.000 che sono in carico al sistema. Un minimo storico. Oggi il numero dei ragazzi detenuti è ulteriormente sceso a meno di 300 a causa dell’emergenza sanitaria in corso.

 

Secondo i dati raccolti dal rapporto Antigone, però, il 72 per cento di minorenni o giovani adulti entrati in Ipm è in custodia cautelare. Solo il 17 per cento dei detenuti ha compiuto reati contro la persona, i più gravi, mentre il 62 per cento ha commesso illeciti contro il patrimonio: furti, rapine, estorsioni, riciclaggio. Come Gaetano, molti giovani si trovano dentro «perché nei quartieri da dove veniamo, se vuoi mangiare, o rubi o ti vendi alla criminalità organizzata», spiega il ragazzo.

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Il decreto legislativo n. 250/2018 che disciplina l’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni ha comunque portato ottimi risultati: il principio di residualità su cui si basa ha come obiettivo limitare la carcerazione, e così molto spesso accade. Insomma, il sistema cerca sempre di trovare alternative (tra cui la messa alla prova e il sistema delle comunità), e la permanenza media nelle carceri è di soli 102 giorni. Perciò dovremmo «andare fieri del nostro sistema di giustizia minorile, che risulta essere tra i migliori d’Europa», puntualizza Susanna Marietti, coordinatrice dell’osservatorio minori dell’associazione Antigone.

 

Purtroppo nulla è perfetto. E la pandemia da Covid-19 ha acutizzato tutte le criticità che le mura degli Ipm avevano celato fino ad oggi. Manca un’equità nei trattamenti dei detenuti, in primo luogo. Nelle carceri minorili non ci si va solamente a causa della gravità del reato commesso, ma anche e soprattutto a causa della debolezza sociale e dell’assenza di legami sul territorio, che impediscono l’individuazione di percorsi alternativi per i ragazzi. A conferma di ciò, l’alta percentuale di detenuti stranieri, che si aggira intorno al 50 per cento del totale.

 

Mentre Gaetano verrà infatti reindirizzato verso una comunità di recupero, nei mesi di emergenza da Covid-19 il numero di detenuti stranieri è aumentato, dimostrando come, anche di fronte alla crisi sanitaria, questi ragazzi hanno potuto beneficiare in misura inferiore di collocazioni alternative al carcere. «Si tratta di una falla del sistema, perché anche un solo ragazzo in più in carcere è di troppo», continua Marietti.

 

Un altro dato che penalizza i giovani detenuti, e in particolare quelli stranieri, è il numero delle strutture: sono 17 gli Ipm sparsi per tutta Italia, da Caltanissetta a Treviso. Troppo pochi se si pensa che «per il detenuto minorenne la detenzione si traduce in un allontanamento coatto anche per migliaia di chilometri dal proprio territorio e dal nucleo familiare», precisa Elena Mattioli, psicologa e psicoterapeuta esperta di disturbi in età adolescenziale e dell’universo giovanile. I minorenni che delinquono «provengono da situazioni di grave disagio economico, i parenti spesso non hanno la possibilità di far loro visita o di accompagnarli lungo il processo rieducativo», continua Mattioli.

 

Una separazione forzata può quindi influire negativamente sul reinserimento in società e sulla vita dentro il carcere. «È difficile interagire con i detenuti stranieri: non conoscono la lingua, si coalizzano tra di loro e spesso sono protagonisti di risse con altre bande», spiega un poliziotto penitenziario in servizio a Milano. «Durante questi mesi di emergenza, però, ho visto solo dei ragazzi spaventati, ignari di quello stesse accadendo in quanto mancavano i mediatori culturali», continua il poliziotto.

 

La condizione degli istituti varia poi di regione in regione. Soltanto due le situazioni di sovraffollamento, seppure lieve, a Bologna e a Milano, mentre in questi primi mesi dell’anno, per esempio, non c’è stata acqua calda nel carcere minorile di Airola, che ha 17 camere di detenzione e attualmente ospita 23 ragazzi. «Gli spazi non sono adeguatamente attrezzati e mancano suppellettili. I materassi sono vecchi e in condizioni igieniche pessime, i problemi di gestione delle videochiamate rendono difficili i colloqui con i familiari. E così vengono meno i diritti dei ragazzi», svela il garante dei detenuti della regione Campania, Samuele Ciambriello. La pandemia ha creato «un totale isolamento per i ragazzi, accentuando problematiche già esistenti. E così i tempi lunghi per interventi e decisioni sono diventati tempi biblici e il personale già insufficiente si è ulteriormente ridimensionato», continua Ciambriello.

 

Capita spesso: negli istituti penitenziari manca il personale. Fortunatamente il basso numero di detenuti consente una copertura equilibrata per la maggior parte degli Ipm. Ma il vero problema è un altro: cioè l’età dei poliziotti in servizio. Gli agenti nelle carceri minorili devono imparare a essere anche un po’ psicologi ed educatori, e «a causa dell’invecchiamento delle forze dell’ordine, è difficile non avere un rapporto conflittuale con i detenuti quando come a Firenze, per esempio, l’intero personale è over 50», chiosa il poliziotto.

 

Il risultato di questo gap generazionale? In questo periodo di emergenza le violenze all’interno delle carceri sono aumentate. L’istituto penale per minorenni Ferrante Aporti di Torino, a fine 2020, è stato teatro di continue aggressioni ai danni di agenti di polizia penitenziaria. «Un collega è stato preso a pugni per il semplice fatto di svolgere il suo dovere richiamando all’ordine i detenuti», mentre nel carcere minorile Casal del Marmo di Roma e nel Beccaria di Milano «sono quattro gli agenti aggrediti senza motivo dai detenuti», aggiunge il poliziotto.
Controllare non è così facile. Anche quando si tratta della salute dei detenuti. La pandemia si è abbattuta sugli istituti penali minorili con effetti ancor più deleteri dal punto di vista psicologico. Le proteste sono aumentate, così come la messa in isolamento dei detenuti. In molti Ipm sono aumentati anche «i casi di autolesionismo, di tentato suicidio e di scioperi della fame», avverte Ciambriello.

 

Dal primo lockdown i «detenuti non hanno mai smesso di avere paura», dice la psicologa Mattioli. E considerato il rischio che «l’ambiente carcerario abbia influssi negativi sulla psiche di chi vi è detenuto, farvi stazionare chi non è ancora stato condannato è un rischio troppo alto per dei ragazzi in un’età così delicata».
Complicazioni che si sono riscontrate anche nell’assistenza medica, sia per i detenuti sia per il personale.

 

A mancare sono le visite specialistiche: «Molti ragazzi hanno dovuto attendere mesi prima poter vedere un dermatologo, un oculista, un chirurgo. Nelle carceri minorili della Campania si sono riscontrati una quindicina di casi di tossicodipendenza, che si sono rivelati molto difficili da gestire sotto l’aspetto clinico», chiosa ancora Ciambriello. La possibilità di accedere facilmente ai medicinali è, quindi, indispensabile. Così come è prioritaria la vaccinazione anti-Covid-19 per personale e detenuti (al momento prevista per i primi ma non per i secondi).

 

A pesare sulla vita nelle carceri è stata anche l’interruzione dei laboratori e delle lezioni scolastiche. La privazione dello spazio ricreativo e di socialità ha penalizzato gli istituti con minori spazi e disponibilità di servizi, dando vita a forme di ghettizzazione nei confronti dei detenuti stranieri. Almeno in un caso, però, si è riusciti a correre velocemente ai ripari. «A parte le prime fasi iniziali, il nostro istituto ad oggi ha ripreso la formazioni dei detenuti attraverso la Dad e abbiamo riattivato anche alcuni laboratori creativi», racconta Antonia Bianco, direttrice del carcere minorile di Firenze, una delle realtà più virtuose del Paese dove al momento sono presenti 15 detenuti.

 

Dopo una prima fase di attuazione delle procedure di distanziamento e di protezione del personale e dei detenuti, «le attività sono riprese grazie a una suddivisione in piccoli gruppi dei ragazzi e all’utilizzo contingentato degli spazi. E nel 2021 l’anno scolastico è ricominciato in presenza», continua la direttrice.

 

L’obiettivo del reinserimento, detto ciò, si raggiunge comunque meglio fuori dal carcere. L’ultimo report tracciato dal Dipartimento per la giustizia minorile sottolinea che più tempestiva è la presa in carico da parte dei servizi sociali, tanto più diminuisce il rischio di recidiva. In generale, il 69 per cento dei minori non commette altri reati. Invece il 31 per cento dei ragazzi torna a delinquere. Significativo sembra essere il peso psicologico della condanna: un minore condannato cade in recidiva molto di più (63 per cento) di un minore con la misura della sospensione del processo e messa alla prova (22 per cento).