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Risolvere deriva dal latino «solvere», cioè sciogliere. C’è una saggezza in questa parola. Essere risoluti significa essere decisi. Prendere una ferma risoluzione significa avere le idee chiare su che cosa fare. E la «risoluzione finale» è la decisione approvata da una assemblea, un congresso. Com’è difficile in tempi incerti essere risoluti. Ci vuole discernimento per sciogliere le riserve e buttarsi nella decisione, al di là degli esperimenti. Che siano essi affettivi o politici o di gusto o altro ancora.


Sciogliere le riserve: di questo abbiamo bisogno in un tempo nel quale le cautele impediscono di giocarsi fino in fondo, in un tempo in cui l’esperienza si confonde con l’esperimento. Risolversi significa dunque affrontare dubbi e problemi con la volontà risoluta di risolverli e non di giocarci a nascondino. «Faccio questo o faccio quello?»: quante volte si cerca di portare avanti decisioni lasciando sempre la possibilità di tornare indietro, una via di fuga! Eppure, così si resta avvolti nella nube di una vita non spesa, non vissuta, non decisa.


I dubbi e le riserve si risolvono compromettendosi, rischiando. Solo così si risolvono i contratti impliciti con le nostre paure, le nostre reticenze. Solo così si possono risolvere le situazioni in modo che finiscano bene, come quando si risolve un caso clinico o un problema di matematica.


Se non risolviamo nulla, la vita si ingarbuglia in un ammasso di fili. Si può avere persino l’illusione che non risolvendo nulla si è liberi, totipotenti, capaci di aggiustamenti continui. Si vive di diritti e non di doveri, ad esempio. È una illusione. Ci si impiglia costantemente. Non si va da nessuna parte e, dunque, ci si irrigidisce. Ingarbugliati non ci si confronta davvero con la storia né con la propria vita. E spesso a irrigidire è la paura. Si ha paura che la risoluzione diventi dissoluzione o dissolvimento: «la possibilità dell’impossibilità di tutte le possibilità» direbbe Heidegger.


Viviamo dunque a bassa risoluzione. Ed il termine lo conoscono bene i fotografi, e cioè tutti noi nel momento usiamo uno smartphone come una macchina fotografica. Una foto a bassa risoluzione è sgranata, non ben definita: si vede, sì, ma non bene. O ancora: è come vedere un film da sala cinematografica sullo schermo di un telefono. Chi vive facendo esperimenti senza risolversi è come chi scatta foto – l’immagine è di Proust nel IV volume della sua Recherche – senza godere della vista piena, della pienezza dell’immagine, dei suoi colori e delle sue definizioni. È vivere di copie e non di originali. Di low cost e musica compressa. Non si gode più credendo invece di godere. Ci siamo talmente abituati alle basse risoluzioni da aver perso il gusto pieno della vita, il gusto delle decisioni e dei conseguenti rischi. Perché non ci decidiamo mai. Bisogna decidersi una buona volta. Imparare a vivere ad alta risoluzione, almeno qualche volta.