Ogni giorno mille casi. Eppure non solo il piano pandemico ma anche quello oncologico è rimasto al 2011, prorogato al 2016. E il divario Nord-Sud aumenta

Solo il Covid lo ha insidiato nelle classifiche di letalità, ma il cancro resta «l’Imperatore del Male», che miete vittime in modo sistematico: in Italia ogni giorno si diagnosticano mille nuovi casi, tutti bisognosi di cure lunghe e complesse. Eppure il ministero della Salute da anni non aggiorna la strategia per combattere il tumore. Sì, nel nostro Paese non è stato dimenticato solo il piano pandemico, lo strumento fondamentale per affrontare il dilagare del virus: anche il piano oncologico nazionale è rimasto abbandonato nei cassetti del dicastero e a livello nazionale non si rivedono le linee guida su prevenzione, monitoraggio, ricerca e terapie.

LA DISEGUAGLIANZA
Questa grande omissione si traduce in una spinta alla diseguaglianza sanitaria, perché manca una regia che uniformi al meglio l’assistenza sul territorio. Senza direttive da Roma, ogni regione procede per fatti suoi: c’è chi comunque va avanti e c’è chi invece resta sempre più indietro. «Ci sono ancora grandi disparità tra l’assistenza sanitaria offerta dalle diverse regioni che determinano spesso una mobilità sanitaria. In molti luoghi mancano strutture e soprattutto servizi di prevenzione sul territorio: era un cavallo di battaglia di mio padre», sottolinea Paolo Veronesi, professore ordinario di chirurgia dell’Università di Milano e Direttore del programma senologia dell’Istituto europeo di oncologia nonché presidente della fondazione creata dal padre Umberto: «In Italia, stando agli ultimi dati disponibili pre-pandemia, si guarisce mediamente meglio dal cancro rispetto agli altri Paesi europei, anche se la situazione può variare molto da regione a regione. Abbiamo un ottimo sistema sanitario nazionale che permette un accesso gratuito a tutti e personale sanitario preparato e capace, che molti Paesi ci invidiano. Siamo indietro invece per quanto riguarda pianificazione, coordinamento e monitoraggio dei risultati».


Il federalismo delle cure – radiografato prima del Covid-19 da un dossier di All.Can, l’associazione internazionale che promuove il miglioramento dell’assistenza oncologica – mostra come la linea gotica esista ancora: divide chi può avere diagnosi e terapie adeguate dal resto del Paese. A Nord gli standard sono considerati molto buoni; un gradino più in basso ci sono Lazio, Umbria e Marche. Sotto, invece, resta tantissimo da migliorare e i pazienti sono spesso obbligati ai viaggi della speranza. È una mappa frammentatissima, con Asl che rimborsano farmaci tanto avanzati quanto cari e altre che non li finanziano, con ospedali in cui si possono avere test genomici e altri che li ignorano. Quasi una foresta, in cui si può perdere la strada per la sopravvivenza. Senza che nessuno si sia impegnato a livello nazionale per abbattere le differenze.


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IL DRAMMA DEI BAMBINI
Questi anni di oblio hanno fatto sì che i programmi di screening per i tumori più diffusi non siano ancora estesi a tutto il Paese, che la disponibilità di posti letto nei reparti oncologici di diverse regioni resti carente e che si continuino a usare apparecchiature obsolete. Il numero di pazienti aumenta, ma non c’è la pianificazione per assisterli, ad esempio, formando il personale in base alla crescita delle necessità. Un deficit che viene pagato soprattutto dai più piccoli: non ci sono specialisti in oncologia pediatrica, tanto che manca persino un riconoscimento accademico e un registro tumori, nonostante il nostro Paese sia tristemente secondo in Europa solo a Malta per numero di bambini e adolescenti malati. Anche per gli adulti restano pochi i percorsi psicologici di supporto, zero i piani riabilitativi di reinserimento del malato. Nulla anche sul fronte delle reti oncologiche regionali che consentono di individuare percorsi diagnostici per differenti patologie e mettere in rete le strutture, ma che sono presenti a macchia di leopardo.

NESSUN SOLLIEVO
Il piano in vigore – un centinaio di pagine di analisi, percorsi e azioni programmatiche con le linee guida su come organizzare la prevenzione e le cure – è rimasto quello del 2011, prorogato fino al 2016. La lotta contro il cancro è stata dimenticata. Nel frattempo l’Italia è cambiata, ci sono zone in cui sono aumentati i tumori ai polmoni a causa dell’inquinamento; i sistemi medici, le terapie, le analisi si sono evoluti. Eppure si sono alternati ministri della Salute e governi ma non hanno ritenuto importante rivedere la strategia contro il male più spietato. Da quel 2016 nessuna iniziativa fino al 2019, quando viene redatta una nuova bozza di 145 pagine, che però non ha completato il cammino per l’approvazione ed è rimasta un esercizio teorico.


Le ricadute invece sono concrete. Prendiamo il caso delle cure palliative, il sollievo per chi non ha più speranza: una realtà con la quale si è confrontato chiunque abbia vissuto il dramma di un familiare o di un amico. Il piano del 2011 evidenziava come in grandi fasce della penisola questo tipo di assistenza fosse totalmente deficitario. Le stime europee più aggiornate sostengono che servano in media 80-100 letti per ogni milione di residenti, ma nella bozza redatta a fine 2019 si sottolinea che «anche stimando la necessità della popolazione italiana in 60 letti di hospice per milione di residenti, attualmente ne mancano mille». È come se quindici milioni di italiani venissero privati in caso di malattia della possibilità di ricorrere a un trattamento dignitoso. Con le solite disparità lungo la penisola. In Campania ci sono 262 letti in meno del previsto, in Sicilia un gap di 162: carenze che si concretizzano in un percorso angosciante di dolore per migliaia e migliaia di persone.

SPERANZA NEGATA
Sappiamo tutti che prima si scopre un tumore, più chance ci sono di superarlo. Ma neppure gli «standard minimi di qualità» per una diagnosi ottimale sono diffusi in maniera uniforme nel Paese. I tecnici del ministero mettono nero su bianco che «è grave la situazione d’invecchiamento degli apparecchi ad elevata tecnologia» e parlano burocraticamente di «un livello di vetustità preoccupante». Peccato che l’allarme sia rimasto nel cassetto. Un’altra carenza evidenziata nella bozza mai approvata è la mancanza di collaborazione tra centri periferici e quelli di riferimento nel caso di interventi chirurgici. Il risultato? Prendiamo le metastasi epatiche da tumore al colon-retto. Sono presenti una volta su due o compaiono a distanza dalla resezione del tumore: nel 10-20 per cento dei casi possono essere tolte con una reale prospettiva di cura. Servirebbero tra i 2.500 e i 5.000 interventi l’anno, ma in realtà se ne contano molti di meno. E questo perché chi potrebbe essere operato non viene indirizzato alle strutture specializzate: resta all’oscuro della possibilità di avere una chance in più di guarire.


Rinunciando al piano nazionale, le istituzioni statali hanno abdicato alla tutela dei cittadini, rendendoli di fatto disuguali davanti alla malattia. Non ci sono stati né stimoli, né vincoli per spingere le regioni in ritardo ad uniformare la loro assistenza e così è stato limitato il diritto alle cure. Soprattutto sul fronte delle reti regionali, condizione per accedere ai finanziamenti europei. «Adeguare il piano anche in relazione a quello europeo significa poter ricevere fondi che sono nostri e che ci spettano e dare a tutti i malati le stesse opportunità: penso alla telemedicina da incrementare, perché molte cose ad oggi si possono fare da casa senza doversi recare in ospedale; ai programmi di screening che non vengono condotti in modo uniforme in tutte le regioni; al coordinamento tra centri specializzati e presidi sul territorio. Il cancro c’è e purtroppo ci sarà anche nei prossimi anni. Non è un’emergenza. La mancanza o la non aderenza ai programmi di screening fa sì che le diagnosi siano tardive e purtroppo le prognosi peggiori. Lo stiamo vedendo in questo periodo. Il tumore non si è fermato con la pandemia e molti pazienti arrivano con malattie più avanzate. Nei prossimi anni secondo molti studi le morti per cancro potrebbero aumentare», continua Paolo Veronesi. 


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LO TSUNAMI COVID-19
Il lockdown rischia di essere una condanna per i pazienti oncologici. Le diagnosi e le biopsie sono diminuite, sia perché il personale è stato spostato a presidiare la diga contro le ondate del Covid-19, sia perché il pericolo di contagi ha ridotto al minimo controlli ed esami. Una situazione drammatica durante la fase drammatica della primavera 2020, che poi – stando alle indagini di Iqvia, il leader mondiale nell’elaborazione dei dati medici – è migliorata, anche se gli oncologi italiani dichiarano di visitare ancora in media il 30 per cento di persone in meno rispetto al periodo pre-pandemia.


Un’emergenza nell’emergenza, tanto che le 550 associazioni riunite nella Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia (Favo), hanno definito il Covid-19 «uno tsunami per i malati di cancro». Un grido di dolore che ha portato il Parlamento ad approvare due risoluzioni sollecitando il governo ad adottare iniziative e – soprattutto - a provvedere con urgenza all’approvazione di un nuovo piano oncologico nazionale, in linea con quello europeo che ha stanziato ben 4 miliardi e in grado di definire una progettualità complessiva da inserire nel Recovery Plan. Favo sottolinea come «in Europa sia iniziata una nuova era oncologica con fondi e progetti di ricerca e in Italia questa indifferenza rischia di farci perdere i finanziamenti per salvare vite». Il paradosso è che la bozza del piano nazionale elaborata dal 2019 ormai è stata superata proprio a causa del virus, che ha imposto una revisione globale di tutte le cure imponendo la centralità dell’assistenza territoriale e domiciliare. «Manca il punto di contatto territoriale e l’emergenza che stiamo vivendo ci ha fatto comprendere quanto sia importante», sottolinea Giordano Beretta, presidente dell’Associazione Italiana di oncologia medica: «Occorre dare organicità a un percorso perché altrimenti ognuno procede come può, con iniziative estemporanee che possono anche essere incongruenti l’una con l’altra».


Il viceministro e chirurgo oncologico Pierpaolo Sileri in Parlamento ha chiesto scusa a nome del ministero, assicurando: «Sarà mia premura seguire il nuovo documento e far sì che venga approvato senza dover aspettare altri cinque anni». Vedremo. Perché c’è mezza Italia che attende da troppo tempo le cure che nell’altra metà sono già garantite a tutti.