Joe Biden seguiva il modello Trump quando, appena eletto, twittava a raffica per esplicitare senza reticenze il suo entusiasmo nei confronti della Pfizer che aveva realizzato in tempi record il vaccino contro il Covid-19: «Un miracolo della scienza», «La prova che in America abbiamo le più brillanti menti del mondo».
Quando, il 19 febbraio, visita lo stabilimento di Kalamazoo in Michigan, Biden a fianco di un commosso Albert Bourla, capo della Pfizer, gli dedica queste parole: «Albert, voglio che tu sappia che l’umanità intera ti sarà per sempre infinitamente grata». Fast-forward a metà maggio: la campagna vaccinale è un successo in America e progressivamente in Europa, quando la rappresentante commerciale Usa, Katherine Tai, annuncia che la Casa Bianca chiederà alla World Trade Organization la sospensione delle tutele brevettuali sui vaccini. Obiettivo, ampliare l’offerta - visto che servono subito 15-16 miliardi di dosi contro una capacità produttiva di 3-4 miliardi - per vaccinare a tappeto i Paesi più poveri dove altrimenti ci sarà un incubatore permanente di coronavirus.
Apriti cielo. L’annuncio scatena una ridda di dichiarazioni, consensi, dissensi, polemiche, puntualizzazioni. Tanto è divisivo che oggi, a oltre un mese di distanza, non è ancora chiaro l’esito: si sono riuniti il G20, il G7, la stessa Wto e l’Oms, e tutti hanno schivato il problema insistendo solo sull’incremento delle esportazioni. Intanto la campagna prosegue: Bloomberg calcola che al 9 giugno siano state somministrate 2 miliardi di dosi in 176 Paesi, ma per il 75% in Europa e Usa in cui vive meno del 10% degli abitanti del pianeta (7,9 miliardi secondo il Worldometer dell’Onu). Solo l’1% è andato in Africa, dove nel frattempo si è scatenata una devastante terza fase e 14 Paesi denunciano un aumento del 30% dei contagi dall’inizio di giugno. Con paradossi disastrosi: il Malawi è stato costretto a bruciare sulla piazza della capitale Lilongwe 20mila dosi di AstraZeneca consegnate in pompa magna ma poi scadute il 13 aprile per problemi di distribuzione (c’è chi accusa che fossero già vecchie). In Sudafrica, Paese martoriato con quasi 2 milioni di infettati e 56mila morti, sede della famigerata variante che terrorizza l’Europa, il contatore è a zero. In Zambia ha avuto la seconda dose solo lo 0,03% della popolazione, in Kenia lo 0,01, in Congo siamo a zero, altrettanto in Costa d’Avorio, Libia, Sud Sudan, Liberia. E poi fuori dall’Africa, in Thailandia è vaccinato l’1,6%, in Armenia l’1,2. Il 29 maggio nella giornata “No profit on pandemic” sono stati raccolti milioni di firme in tutta Europa per sollecitare la sospensione della proprietà intellettuale. «In poche settimane le aziende farmaceutiche sono passate da eroi popolari a criminali pubblici», scrive il Financial Times.
La querelle brevettuale è lo scoglio più arduo in quella che l’Economist definisce «la più grande operazione logistica della storia». La distribuzione nelle 96 nazioni più svantaggiate del pianeta dovrebbe compierla il Covax, braccio operativo dell’Oms che si prefigge di vaccinare il 30% delle popolazioni entro il 2021 ma non decolla per la mancanza sia di materia prima (i vaccini appunto) che di finanziamenti, malgrado il disperato appello del Fondo Monetario perché l’Occidente regali le sue eccedenze ai Paesi poveri. Ma bisognerà in ogni caso comprarne altri e il Covax ha lanciato un appello per 4 miliardi, l’America ne ha promessi 2 purché l’Europa faccia la sua parte.
Il problema però resta: come aumentare i quantitativi? Non basta dire “sospendiamo i brevetti”: «Un vaccino tecnologicamente innovativo come quello a mRna (“m” sta per “messenger”, ndr) che insegna alle cellule come armare gli anticorpi, è il punto d’arrivo di una serie di ricerche effettuate da centinaia di università, startup, aziende biotech, studiosi privati in ogni parte del mondo», spiega Francesco Lissoni, ricercatore del Gretha (Groupe de Recherche en Économie Théorique et Appliquée). «Il vaccino Pfizer ha 280 componenti, a loro volta brevettati, provenienti da 86 fornitori in 19 Paesi. La proprietà intellettuale è dispersa e bisogna districarsi in quella che gli americani chiamano “thicket”, boscaglia. Una volta concessa una licenza serve un massiccio trasferimento di tecnologie, uomini, mezzi, infrastrutture perché uno stabilimento per fare i vaccini è quanto di più complesso si possa immaginare».
Su quest’ultimo punto verte la discussione in questi giorni al Wto, «che si è finalmente impossessato del suo ruolo di arbitro nelle vicende commerciali planetarie», osserva Fabio Montobbio, economista della Cattolica. «Una controversia riguarda la localizzazione: è impensabile in tempi utili impiantare una fabbrica di vaccini in Kenia o Sierra Leone. Questi Paesi devono essere messi in condizione di creare un pool di importazioni e di affidarsi a qualche impianto in occidente al quale deve essere dato il permesso di produzione». Le decisioni operative sono di là da venire, e fa rabbrividire la data in cui il mondo conseguirà secondo l’Ocse una vera immunità: fine 2023, a meno di auspicabili sviluppi.
Intanto Big Pharma spende - calcola il Center for Responsive Politics di Washington - 100 milioni di dollari l’anno (il doppio di Big Tech) per sostenere le proprie tesi come l’irrinunciabilità delle tutele brevettuali. «Le strade sono due, la sospensione tout court dei brevetti o una serie di licenze obbligatorie mirate caso per caso ed espressamente finalizzate alla produzione di questo vaccino», spiega Massimo Florio, docente di Scienza delle Finanze all’Università di Milano che sta per pubblicare con Laterza “La privatizzazione della conoscenza”. «È scattato un riflesso pavloviano presso le industrie ma si dimentica il decisivo ruolo delle istituzioni pubbliche di ricerca per arrivare ai vaccini. In America il National Institute of Infectuos Diseases di Anthony Fauci ha creato le proteine spike stabilizzate e l’Università di Pennsylvania il concetto di modifica dell’Rna. I finanziamenti pubblici, iniziati già dalla presidenza Trump, sfiorano i 15 miliardi di dollari. Altrettanto accade in Europa».
Per di più i governi hanno azzerato il rischio industriale comprando in anticipo, prima che venisse completato l’iter autorizzativo, grandi quantitativi. «Un tipico caso», dice Florio, «di pubblicizzazione dei rischi e privatizzazione degli utili». Aldo Morrone, direttore della Medicina delle migrazioni al San Gallicano di Roma, da una vita in prima linea nell’assistenza ai Paesi poveri, taglia corto: «Serve un impegno da 50 miliardi di dollari, dice la Banca Mondiale, per sconfiggere davvero il Covid-19. I trasferimenti tecnologici e le lavorazioni sono possibili non dovunque ma in molte aree del mondo, serve solo la volontà politica di andare avanti». Il primo esempio di licenza obbligatoria è la produzione presso la Imperial Pharma indiana del Covishield su tecnologia AstraZeneca. «Ma la storia», dice Morrone, «è piena di casi di cessione di proprietà intellettuale per motivi di emergenza, pensiamo alla penicillina che serviva all’esercito durante la seconda guerra mondiale. Se non emergenza questa, cos’altro deve succedere?».
L’impasse sui brevetti rischia anche di rivoluzionare gli equilibri geopolitici. Il ridisegno delle sfere d’influenza vede impegnate Russia e Cina per l’insperata chance di stabilire nuovi domini territoriali e rilanciare l’aspirazione al ruolo di superpotenza. I due contendenti si giocano l’arma dei vaccini in chiave interna. La reputazione del presidente cinese Xi Jinping era ai minimi perfino in patria per il maldestro tentativo di nascondere l’origine del virus. Poi la sua immagine si è riqualificata con la diffusione gratuita in ampie fasce del sud-est asiatico e dell’Africa del vaccino Made in China, il Sinopharm, non riconosciuto peraltro dalle autorità di controllo internazionali.
Quanto a Putin, gli effetti di autoreferenzialità sono ancora più clamorosi: essendosi presentato ai suoi connazionali come il fautore dello Sputnik, il vaccino russo (anch’esso non certificato in Occidente), ha vinto nel 2020 l’ennesimo referendum costituzionale. Ancorché viziato da sospetti di doppio voto, brogli, violazioni della segretezza, coercizioni, addirittura percosse a un giornalista occidentale che stava cercando di documentare le irregolarità, l’emendamento approvato alla Costituzione proroga l’eleggibilità di Putin fino al 2036, grazie allo Sputnik.
E in Arabia Saudita la Russia con il soft power del vaccino è riuscita ad appianare le dispute sui prezzi del petrolio (sono i produttori numero 1 e 2 del mondo). L’ultimo derby è nell’est Europa, con i russi forti in Repubblica Ceca e Ungheria, i cinesi in altri Paesi. Ci si contende il mercato provincia per provincia: in Serbia i cittadini della parte est sono vaccinati con lo Sputnik, gli altri con il Sinopharm. In Africa il Risiko è scatenato. Il think-tank Eurasia la chiama viruspolitik: «Alla via della Seta, il progetto di espansione congelato dall’Unione europea, si è sostituita la “Health Silk Road” che sarà difficile scardinare proprio perché coglie l’Occidente in un momento di grande incertezza».