Viaggio nell’istituto minorile di Palermo. Che vorrebbe non essere solo prigione. Ma indicare nuove strade a chi c’è finito perché l’ambiente in cui è cresciuto non gli lasciava alternative

L’eco di pugni che battono su porte di metallo e grida spezza il canto monotono delle cicale: è il suono dei giovani detenuti che raggiunge il giardino nel complesso che ospita il carcere minorile Malaspina di Palermo. E l’immagine racconta la frattura che divide, come una ferita, il dentro e il fuori. A fare strada è Clara Pangaro, da trent’anni al Malaspina, da educatrice e negli ultimi quattro da direttrice dell’Istituto penale minorile che è solo maschile e ospita ventisei ragazzi dai 14 ai 25 anni. Hanno commesso soprattutto reati contro il patrimonio, (furti, rapine, spaccio di droga) e qualcuno anche omicidi. Nel lungo corridoio, i colori di disegni e murales non nascondono muffa e pareti scrostate. «Cerchiamo di organizzare tante attività affinché il tempo in carcere non sia sospeso, ma di lavoro e formazione, e revisione delle scelte, fatte a volte senza consapevolezza», spiega la direttrice.

Dopo minuziosi controlli, chiavi grandi quanto mani aprono l’enorme cancello di sicurezza. A varcarlo doveva esserci anche la celebre fotoreporter Letizia Battaglia, scomparsa il 13 aprile scorso. La figlia, e fotografa, Shobha stringe tra le mani, come un testimone, la macchina fotografica della madre: è la sua presenza qui.

Quando si entra nell’area detentiva, la libertà è a un passo, ma inarrivabile. Quando la porta con sbarre di acciaio si apre, quelle mani strette nei pugni rivelano un volto. I ragazzi cercano i nostri occhi, si avvicinano, ridono e poi si allontanano restando uniti come uno sciame di api, hanno magliette firmate e tatuaggi che sono manifesti su carne di cose vissute o del credo con cui viverle. Alcuni hanno accettato l’incontro con L’Espresso e scelgono nomi di fantasia .

 

«La mia testa se resto qui se la mangia il carcere»: Gabriele è seduto sulla finestra e guarda oltre le grate che miniaturizzano l’orizzonte, negli occhi si leggono le ombre e le luci che lo abitano. Ha 18 anni, viene dalla Sicilia nord-orientale, ed è da un anno al Malaspina per rapina aggravata: «Ero diventato una vittima del sistema di spaccio che dove vivo è gestito da alcune famiglie, io prendevo 50 euro, chi gestiva lo spaccio, e non era neanche il più grande, anche tremila al giorno. Facevo lo “scopino”, spacciavo e mi lasciavano fumare il crack tutto il giorno in una casa chiusa».

 

La droga all’inizio era un gioco: «Non conoscevo i rischi, sentivo di avere potere, volevo essere come gli altri che grazie allo spaccio potevano comprarsi bei vestiti e tutto quello che desideravano. Chi aveva un lavoro onesto era visto male. Un’idea distorta, l’ho compreso qui». La dipendenza psichica era dietro l’angolo: «Fermavo la gente per strada con un coltello per rapinarla, i soldi non mi bastavano mai, la droga mi ha fatto perdere le staffe». Gabriele è cresciuto con sua madre e i nonni, il padre non c’è mai stato: «La mia infanzia è diventata brutta a sette anni, quando i nonni sono morti per un tumore».

 

A casa, quando uscirà, lo aspetta un figlio che è appena nato. Dovrà cercare, lui che è poco più che un bambino, di essere il padre che non ha avuto: «Sono cresciuto in mezzo alla strada senza una figura paterna che ti insegna a essere un uomo giorno dopo giorno. Ho spacciato perché non sapevo come guadagnare i soldi e nessuno mi dava un lavoro. Lo Stato ci lascia commettere reati, fino a quando arriva quello grave, perché non ci fermano e aiutano prima? Se mi ributtano per strada a 22 anni, senza aiuto, cosa farò? Chiedo la libertà vigilata, e, con un supporto psicologico fuori, la possibilità di dimostrare che sono cambiato, altrimenti impazzisco».

Quando don Carlo Cianciabella, parroco al Malaspina da un anno e per sua richiesta, arriva e apre la piccola cappella, Gabriele lo segue, lo abbraccia e, seduto, tiene a lungo la testa appoggiata sul suo braccio. Si stringono al cappellano anche molti altri, dopo essersi fatti il segno della croce e aver baciato la statua della Madonna all’ingresso.

 

Li segue l’educatrice Maria Mercadante: «Avere la loro fiducia è la cosa più difficile. In passato sono stati traditi e cercano relazioni autentiche, coerenza e regole mai avute, anche se poi le rigettano, per provocare».

 

Qui dentro giudizi e certezze si azzerano ogni istante. «Non sono mostri, è la società che a volte è un mostro e crea ghetti senza Stato e istituzioni», dice don Carlo Cianciabella. «Sono solo ragazzi, spesso più maturi di quelli della loro età perché arrivano da contesti disagiati in cui hanno imparato a difendersi, meritano attenzione perché se sono qui, non è solo colpa loro. È come se fossero nati carcerati e la parte sana della società ha un debito nei loro confronti».

«Nati carcerati», sono in molti ad aver conosciuto il padre in prigione. Un destino che si ripete anche per Carlo, che scrive il nome di suo figlio, che ha appena sei mesi, su un foglio di carta e lo scarabocchia con dei cuori. Ha 23 anni, viene dal quartiere Zen di Palermo dove «i bambini devono saper sopravvivere nella strada». Nel futuro si vede un buon padre, lui che il suo lo ha visto solo dietro le sbarre: «Ora mia moglie mi porta mio figlio ma non voglio che lui faccia la stessa fine». Ha sei anni e otto mesi davanti per una rapina commessa a 14 anni: «Del reato sono solamente io il responsabile, ho fatto quello che ho visto fare in alcuni film. Non ho avuto paura perché chi rapina è visto come uno tosto e volevo esserlo anche io e fare molti soldi, come gli altri». È stato facile reperire l’arma: «Dove vivo basta pagare. Al massimo 400 euro».

 

A chiudere e aprire i cancelli, della «gabbia», come i ragazzi chiamano questo posto , ci sono gli agenti di Polizia penitenziaria. «Cerchiamo di far comprendere il valore delle regole a ragazzi cresciuti in contesti senza legalità e spesso di abbandono familiare», spiega Francesco Cerami, dirigente della Penitenziaria. La maggior parte di questi giovani, alcuni a 17 anni, riceve in carcere, per la prima volta cure mediche e dentistiche. «Non possiamo fare miracoli, i ragazzi quando escono ritornano in zone in cui lo Stato manca ed è sostituito dal potere criminale. È anche una scelta politica».

 

Le giornate sono descritte senza fine, con due ore d’aria la mattina e due il pomeriggio, e il diritto a sei colloqui al mese con la famiglia: «Sono grato delle attività che ci fanno fare, ma alcuni giorni nella stanza restiamo anche venti ore, giochiamo a calcio solamente una volta a settimana», racconta Messak, 19 anni, che sogna, o sognava, di fare il calciatore, e dice di essere bravo: «Ma quando uscirò avrò trent’anni, non sarà più possibile». Anche lui ha conosciuto suo padre in galera: «Sono cresciuto nei colloqui del carcere. Lo vedevo come un idolo, mi vantavo con gli altri amici che avevano anche loro i padri in prigione. Non do la colpa a lui per i reati che ho commesso, però se uno ti dice di non fare una cosa e poi la fa, non è un esempio».

Messak viene da Pesaro dov’è nato da una famiglia di origine marocchina e spera di diventare cittadino italiano. È passato in nove istituti prima di arrivare a Palermo, alle spalle ha 49 reati commessi da minorenne: «L’ho fatto per rabbia, sofferenza, per necessità di soldi per me e la mia famiglia». La violenza come abitudine: «Picchiavo qualcuno e non avevo più emozioni, paura. Ora ho capito, mi addormento con il senso di colpa». Qui ha la possibilità di studiare: «Prima nelle scuole ci andavo solo per spacciare».

 

La scuola dentro il Malaspina cerca di farsi inchiostro per storie nuove. «Le classi sono miste, i ragazzi hanno un diverso livello, alcuni imparano qui, a 14 anni, a leggere e scrivere. Si vergognano per questo», racconta l’insegnante d’italiano Valeria Pirrone, arrivata nel 2012. «La didattica tradizionale resta fuori, qui serve amore. Quando i ragazzi non venivano in aula li andavo a prendere nelle stanze», aggiunge Tiziana Basile, per tutti la “maestra Tiziana” che al Malaspina ha insegnato per trent’anni: «Sono ragazzi con una sensibilità incredibile, nessuno crede al bello che hanno dentro». È lei che ha dipinto con i giovani tutto il carcere, rifatto il murale di Banksy con la bambina e il palloncino rosso a cuore, trasformato le pareti in lavagne permanenti per parlare di educazione civica, Europa e legalità, e che nell’aula ricreativa ha fatto scrivere sui muri quali sono i doveri e i diritti.

 

I diritti, come quello all’infanzia negato a molti di loro. Ora vorrebbero muovere con una diversa consapevolezza i fili della loro esistenza, come muovono quelli dei pupi siciliani, le marionette antimafia del laboratorio iniziato nel 2018. «Sono fragili e con una voglia di fare e un talento incredibile», dice l’ideatore Angelo Sicilia. «Il progetto prevede che alcuni ragazzi, una volta usciti lavorino con noi, purtroppo qualcuno è tornato qui, non riusciamo a fare concorrenza economica al welfare mafioso».

 

Ragazzi con un’energia difficile da contenere, che vorrebbero fare più sport, nuotare o imparare a farlo nella piscina del Malaspina, che però non è agibile. «Non riusciamo da alcuni anni ad avviare i lavori a causa della pandemia e della difficile e costosa manutenzione che richiede una piscina di questo tipo», dice la direttrice Clara Pangaro. Messak indica la vasca: «È abbandonata. Sono disponibile come volontario per rimetterla a posto». «Anche io», dice Silver, 22 anni, di Mazara del Vallo. Lui ha già scontato una condanna di dieci anni: «Una bravata a 15 anni, un incidente con l’auto in cui è morta una persona», racconta. «Bisogna togliere la droga dalla strada. Quella sintetica è ovunque, con cinque euro un bambino compra una dose di crack. Noi abbiamo sbagliato ma questo non si può accettare».

Per don Carlo Cianciabella è necessario «rompere i muri» e concepire un carcere con le porte aperte: «Serve uno scambio maggiore tra dentro e fuori. Il muro alto fa sentire al sicuro chi non si sente responsabile, chi guarda dall’alto in basso questi ragazzi che si incattiviscono perché si sentono messi ancora ai margini. Ci sono percentuali alte di suicidi o tentati suicidi negli istituti minorili. Il sistema giudiziario si dovrebbe interrogare molto a livello nazionale». «Serve una trasformazione del sistema e della società, e questo richiede un cambio culturale», sottolinea il vicedirettore del Malaspina, Salvatore Pennino. «Servono ingenti investimenti nel sociale per toglierli dalla strada e più risorse per offrire opportunità adeguate una volta usciti», aggiunge Clara Pangaro, «qui piantiamo semi, sperando che nascano fiori».

 

«Fiori dal nulla», «diamanti chiusi in una vetrina»: sono stati i giovani detenuti a definirsi così in una canzone scritta in un progetto per mettere in musica le loro urla. Messak appoggia la testa al cancello, guarda degli adolescenti in cortile nell’ora d’aria: «Le carceri minorili devono esistere?», si chiede. «I minorenni non devono arrivare a fare reati, ci sono tanti bambini abbandonati là fuori, come lo ero io. Noi siamo considerati gli ultimi, siamo invisibili. Ma noi vogliamo essere visti, vogliamo esistere».