Emergenza clima

I custodi delle oasi del Marocco nell’ultima trincea contro l’avanzata del deserto del Sahara

di Matteo Fagotto foto di Matilde Gattoni   24 ottobre 2022

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Emblemi di biodiversità, minacciate dalla desertificazione, sono l’habitat di popolazioni che all’ombra delle palme hanno differenziato le colture

«Vengo qui ogni volta che ho voglia di prendermi un momento libero», spiega Mohamed Laaziz, addentrandosi tra palmeti e piccoli appezzamenti coltivati. «Qui la natura è talmente bella che mi basta ascoltare il cinguettio degli uccelli per essere felice».

Commerciante di datteri di 52 anni, Laaziz ha vissuto quasi tutta la sua vita a Tamegroute, un’oasi di 21.000 abitanti che costeggia la valle del fiume Draa, nel Marocco meridionale. Quand’era bambino, i campi di Tamegroute erano ricolmi di frutteti, coltivazioni e palme da dattero, il principale prodotto agricolo delle oasi. «In autunno ogni famiglia ne raccoglieva più di una tonnellata», racconta: «E a fine raccolto, ci radunavamo attorno al fuoco per ascoltare le storie delle nostre nonne».

Il giovane Laaziz trascorreva i pomeriggi a nuotare con gli amici nelle fredde acque del Draa, che scendevano copiose dalle montagne dell’Atlante. Oggi, lo stesso fiume che per secoli ha portato la vita a Tamegroute è completamente secco e coperto di arbusti. «Ormai il Draa riceve acqua per non più di tre o quattro mesi l’anno. Quest’anno non ne è arrivata neanche una goccia», spiega Laaziz scoraggiato. Buona parte di quella che un tempo era un’oasi verdeggiante si è ormai trasformata in una distesa infinita di campi abbandonati e alberi morenti. «La siccità dura da otto anni», continua. «È molto triste, ma non mi si può andare contro il volere di Dio».

Le oasi ospitano a oggi più di 150 milioni di persone in tutto il mondo e costituiscono una delle barriere ecologiche più importanti contro l’avanzata del deserto. Ma negli ultimi decenni, l’innalzamento delle temperature dovuto al cambio climatico e le sempre più invasive attività antropiche hanno provocato una micidiale combinazione di siccità e desertificazione, che rischia di spazzare via un ecosistema unico al mondo.

La tendenza è particolarmente preoccupante in Nordafrica, una delle regioni più secche del pianeta, dove le temperature potrebbero alzarsi di ben cinque gradi entro il 2060. In Marocco le oasi occupano il 15 per cento della superficie del Paese e ospitano circa due milioni di persone, ma nell’ultimo secolo per due terzi sono già scomparse, e il numero delle palme da dattero è sceso da 15 ad appena sei milioni.

M’hamid el Ghizlane, l’ultima oasi sulla valle del Draa prima dell’inizio del Sahara, sembra il set di un film apocalittico. L’oasi, che ospita 8.000 persone, si è ridotta di due terzi negli ultimi decenni, e quello che rimane è sul punto di essere inghiottito dal deserto. «Ci stiamo trasformando in una specie di cimitero», lamenta l’ambientalista locale Halim Sbai, 51 anni. «Quando ero piccolo c’erano palme, frutteti, campi… Oggi ci sono solo tronchi morti».

Eppure per millenni le oasi sono state un simbolo unico di ingegnosità umana e sviluppo sostenibile. I loro abitanti sono stati capaci di prosperare in un ecosistema completamente creato dall’uomo - e in alcuni tra i climi più ostili al mondo - utilizzando al meglio le limitate risorse a propria disposizione. «Le oasi erano ecosistemi isolati», spiega il 27enne Abdelkarim Bouarif, agronomo presso l’oasi di Skoura. «Gli abitanti erano costretti a produrre quasi tutto ciò di cui avevano bisogno e lo facevano grazie a un know-how acquisito in millenni di sperimentazioni».

Le oasi si basano su un sistema agricolo incentrato sulla palma, che fornisce datteri e riparo dai raggi solari, preservando così l’umidità necessaria a far crescere sotto le sue fronde alberi da frutto, verdure, cereali e foraggio. È questa varietà di colture che permette alle oasi di essere estremamente resilienti e adattabili alle variazioni climatiche. «Melograni, mele, albicocche, pesche, olive, fagioli, grano, orzo… Un’oasi sana è un’ode alla biodiversità, dove piante e alberi vivono in sinergia, con la palma da dattero come direttore d’orchestra», spiega Bouarif.

L’acqua viene convogliata dalle falde alle oasi tramite un antico sistema di canali sotterranei chiamati khettara, che sfruttano la gravità e ne impediscono l’evaporazione. Gli ksar, i villaggi tradizionali che punteggiano le oasi marocchine, sono costruiti in spessi muri di fango, che isolano le case dalle alte temperature esterne e garantiscono una ventilazione naturale.

Le siccità hanno sempre fatto parte della vita nelle oasi, ma un tempo la loro ciclicità permetteva alle comunità di sopravvivere stoccando cibo e gestendo con oculatezza le risorse idriche. Oggi il cambiamento climatico sta alterando questo ciclo, facendo aumentare le temperature e rendendo i periodi di siccità sempre più lunghi. La loro scomparsa segnerebbe la fine di una civiltà unica, i cui insegnamenti e tecniche di adattamento potrebbero rivelarsi preziosissimi per aiutarci a far fronte a temperature e fenomeni atmosferici sempre più estremi.

In Marocco, la maggior parte delle oasi si trova nel vasto bacino desertico a sud delle montagne dell’Atlante, lungo le rotte carovaniere che collegavano il Sahara con le coste del Mediterraneo. I loro abitanti sono i discendenti delle tribù nomadi che occuparono queste aree nel corso dei secoli e sono fortemente attaccati alle loro terre. Ma la mancanza di prospettive costringe sempre più famiglie ad abbandonare le proprie terre per emigrare in città e cercare lavoro nell’edilizia, o nell’industria turistica. Centinaia di ksar abbandonati stanno crollando sotto il peso delle dune e camminare tra le loro rovine equivale ad assistere dal vivo alla lenta scomparsa di una civiltà.

A Skoura, un’oasi di 24.000 abitanti situata su un altipiano vicino all’Atlante, la prossimità dalle montagne garantisce ancora una costante riserva d’acqua. Qui la raccolta di palme e olive riveste tuttora un ruolo importante per le famiglie locali. Giovane e appassionato, l’agronomo Bouarif conosce molto bene le sfide che la sua oasi si trova ad affrontare, e vuole preservarne l’esistenza promuovendo un mix innovativo di agricoltura e turismo sostenibili. «Dobbiamo tornare a fare ciò che facevano i nostri antenati e focalizzarci sulla palma da dattero», spiega con convinzione. «È lei che ha portato la vita nelle oasi, e senza di lei non potremmo continuare a esistere».

Bouarif incoraggia gli agricoltori locali a reintrodurre tecniche tradizionali come la rotazione delle colture, oltre all’utilizzo di semi locali e di fertilizzanti naturali. «Anche l’associazione delle colture è molto importante», prosegue. «Le leguminose sono ricche di azoto e i cereali arricchiscono il suolo di calcio, mentre le piante aromatiche tengono lontane erbacce e parassiti».

Oggi che l’emigrazione di massa mette a rischio la trasmissione di queste conoscenze ancestrali, la missione di Bouarif è divenuta ancora più importante. «Molti agricoltori non applicano più queste tecniche. Anno dopo anno cercano solamente di ottenere le rese più alte dalle colture più redditizie», continua. «La verità è che non abbiamo bisogno di fertilizzanti chimici nelle oasi, e non abbiamo neanche bisogno di sfruttare le nostre terre all’eccesso».

Bouarif applica gli stessi princìpi di sostenibilità alla casbah di famiglia, che è stata riconvertita in guesthouse turistica. «Tutti i prodotti agricoli di cui abbiamo bisogno provengono dai nostri campi o da quelli degli agricoltori della zona e utilizziamo l’acqua di scarto della piscina per irrigare i nostri campi», spiega. Bouarif ama accompagnare i suoi visitatori nel palmeto e spiegare loro come funziona un’oasi. Così facendo, spera anche di sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale sui problemi che affliggono le oasi marocchine.

A M’hamid, l’ambientalista Sbai sta tentando di salvare anche la ricca cultura delle oasi, che viene ancora trasmessa oralmente di generazione in generazione attraverso canzoni e poemi secolari. Ogni fine settimana, decine di bambini e adolescenti di radunano presso la sua scuola di musica per ascoltarli e conoscere le proprie origini. «Lavoriamo sul nostro patrimonio immateriale. È un primo passo necessario, altrimenti i giovani non sapranno neanche più cos’è un’oasi», spiega Sbai che, nonostante le difficoltà, si dice ancora speranzoso per il futuro. «Il nostro è uno sforzo a lungo termine. Per salvare le oasi dobbiamo prenderci prima di tutto cura delle persone che ci vivono. Sono loro i soldati in questa battaglia contro la desertificazione, e il Sahara è un nemico che non perdona».