La vigna come regalo di laurea, l’operaio che riprende il terreno dello zio. L’impiegato che cambia vita e si trasferisce in campagna. Nuovi agricoltori che non mollano

In vigna ti aspetta Calogero. Quel Calogero non è però il contadino baffi e capelli neri della Sicilia dei quadri antichi, ma è un giovane alto, capelli raccolti e t-shirt grigia dei Pink Floyd. Ha girato il mondo e dal punto più lontano dalla sua Sicilia, l’Australia, ha deciso che doveva tornare a Montallegro, in provincia di Agrigento per fare vino. In una terra burbera che ha lasciato scappare gran parte dei suoi giovani, Calogero, nome del santo più amato in provincia, è uno dei nuovi protagonisti siciliani del cosiddetto vino naturale o artigianale, un vino cui non vengono aggiunte altre sostanze chimiche, alla ricerca della più antica ricetta del nettare degli dei. «Studiavo ingegneria a Pisa, poi scopro che esiste viticoltura ed enologia accompagnando un amico a registrare una materia e così ho cambiato la mia vita», racconta Calogero Caruana: «Durante dei seminari con l’università ho fatto esperienze nelle cantine, lì ho conosciuto un imprenditore australiano, così mi sono trasferito per studiare il vino naturale ma con l’intenzione di tornare e creare il mio di vino, nella mia terra».

 

Così, per la laurea i suoi genitori gli regalano 9mila metri quadrati di vigna che lo portano di nuovo nel profondo Sud per mettere in pratica quanto appreso negli anni. «Questa terra ha delle potenzialità enormi che oggi non vengono espresse però è molto difficile lavorare, se c’è un problema bisogna aspettare settimane. Riuscire a fare vino qui vale doppio. Ho accettato la sfida, sono tornato nella mia terra con la prospettiva di fare crescere questo territorio». L’obiettivo iniziale, dopo l’avvio dell’attività nel 2020, è quello delle 10mila bottiglie: oggi, nella sua piccola cantina, Calogero non ha più spazio per le botti ma vuole espandersi ancora, rimanendo però nei limiti del vino artigianale su un territorio che altrimenti sarebbe rimasto brullo e senza speranze.

Gran parte dei terreni della sua zona dove prima c’erano vigneti, dopo il fallimento delle cantine sociali, sono stati abbandonati ed erano destinati alla desertificazione come gran parte delle aree siciliane. Con il vino biologico, però, anche quei terreni dove non c’è più nulla rinascono con una nuova impronta che attinge al passato, riprendendo il percorso dei vecchi contadini, gli zii o i padri dei giovani che oggi vogliono riprendersi la terra. Dopo la chiusura delle miniere, dall’altra parte della Sicilia, a Campofranco, non c’era più nulla, e quei territori tutt’altro che pianeggianti non sembravano adatti per dei vigneti.

Non era di questa idea Giuseppe Cipolla, che con la sua azienda Passofonduto, dal nome della contrada, ha deciso di sovvertire questa teoria chiamando poi il vino, “Solfare”, in onore della tradizione mineraria del luogo dove prima si estraeva lo zolfo. Vent’anni a lavorare in uno studio notarile ad Agrigento, Peppe alla soglia dei quarant’anni, in piena pandemia, nel 2020, decide di lasciare le carpette impolverate per vivere in campagna.

Dove c’era il grano adesso sorgono delle vigne e di queste vigne Giuseppe ha fatto la sua ragione di vita, tanto che sotto i vigneti ci dorme, nella sua piccola casa ricavata dal poco spazio lasciato libero dal proliferare di botti: «Attraverso il vino si è protagonisti del territorio, mi ha reso libero. Non sapevo a cosa andavo incontro ma volevo cambiare vita, oggi mi piace stare qui, zappare e fare il contadino. Viviamo in un territorio non facile dove è difficile trovare gente che vuole stare dietro a un progetto del genere, ma con la mia testardaggine sono riuscito nell’impresa di fare vino qui». Peppe, dopo aver messo sul mercato la sua prima bottiglia del 2020, è stato risucchiato dalla sua nuova vita e adesso il mercato richiede ancora più bottiglie, tra tutte il suo rosso naturale “Le Robbe”, nella vigna che così ritorna alle origini, con il sapore dello zolfo: «Qui abbiamo quello che la natura ti ha dato, per questo parliamo di vini naturali, io mi definisco un artigiano del vino, con strumenti semplici e non industriali, non voglio farlo per me ma per il nostro territorio. Questo dà l’identità al vino che faccio e questo voglio trasmettere a chi lo beve». Così, dalle miniere adesso il vino arriva in Inghilterra e negli Usa.

«La Sicilia dei vini artigianali rappresenta un territorio ancora da scoprire che può avere diverse declinazioni», spiega Salvo Ognibene, giornalista esperto di vini: «Questo territorio oggi conta tante giovani aziende che si stanno già affermando nel mondo del vino artigianale che piace perché pulito e giusto. In particolare Agrigento sta rinascendo nel vino e questo lo conferma anche il fatto che il miglior vino bianco eletto a Bruxelles al concorso mondiale sia un vino agrigentino. La cosa interessante è che questo mondo racconta una propria filosofia basata sullo slow food e che ogni cantina ha una storia da narrare, dove il vino rimane materia viva». Da Agrigento fino a Caltanissetta, si sale fino all’Etna, dove anche Gianluca Furnari ha deciso di non lasciare incolti i suoi terreni e da una promessa fatta a suo zio prima di morire si divide tra i turni di notte con il carro attrezzi e la sua vigna: «Spero che questo diventi il mio unico lavoro, stiamo crescendo sempre di più e punto come primo passo ad arrivare a 6mila bottiglie». Alla vecchia vigna dello zio ha dato un nuovo stile, puntando sulla semplicità del naturale e rilanciando il nuovo marchio da lui creato, “Tenuta del vallone rosso”, attraverso i social. A trent’anni, in un territorio riscopertosi vocato per il vino, Biancavilla, decide di rimboccarsi le maniche nel suo terreno e di dare vita a un Nerello Mascalese tutto naturale: «Dopo la morte di mio zio ho deciso che dovevo prendere io le redini di queste terre che non hanno nulla da invidiare a quelle degli altri versanti dell’Etna e ho ricevuto numerose richieste tanto da esaurire subito la prima produzione». Il lavoro del contadino-artigiano del vino continua ancora e adesso Gianluca si trova nelle vigne per raccogliere l’uva che sull’Etna matura più tardi: «Con impegno, un buon vino e una buona immagine si possono rilanciare questi territori producendo 100 per cento in purezza, rispettando la natura e una vigna di famiglia che sarebbe andata perduta».

 

Perduti sarebbero andati anche i terreni di Stefano Ientile, che nel Belice ricostruito dopo il terremoto del 1968 è riuscito a dare un nuovo futuro ai terreni, producendo 12 mila bottiglie tra Catarratto e Syrah: «Io dovevo essere un architetto, invece ho portato l’architettura nella cultura del vino», racconta Stefano, dell’azienda “La Chiusa”, oggi 43 anni e da 8 nel campo del vino: «Fare vino ti insegna a cercare la semplicità e questo non è facile. Togliere e riportare il vino alla sua radice naturale è difficile. La Sicilia può ancora raccontare molto sul vino, le nostre zone sono vergini». Dietro ai ruderi della vecchia Montevago, il posto più colpito dal terremoto con il maggior numero di vittime, la speranza è nel vino e nella sua “Chiusa” (un insieme di terreni ben definito vicino al paese), Stefano vuole portare ed esportare la sua idea di vino e di natura: «Dopo anni passati a portare il vino in cantina ho deciso di fare io il vino puntando a un prodotto buono, legandolo però a un concetto di bellezza. Così ho deciso di completare la filiera e da 8 anni produco i miei vini, racchiusi in 10 ettari, al naturale, rispettando il percorso della natura». In una terra ventosa, a pochi passi dalle terme appartenute alla nonna, il giovane Stefano intraprende una sfida che lo porta a esportare il prodotto anche all’estero con un successo inimmaginabile per una terra sconosciuta per il vino: «In un mondo pazzo come quello in cui viviamo volevo dare un’altra immagine del vino come nutrimento e c’è ancora tanto da raccontare».

 

Alla globalizzazione e alla standardizzazione si contrappone un nuovo mondo che mira così alla sostenibilità e al racconto del vino come filosofia di vita e di cibo come nutrimento: «L’agricoltura biologica rappresenta, soprattutto in Italia, il nuovo paradigma di un modello di società orientata alle esigenze dell’uomo più che del mercato», spiega Lillo Alaimo Di Loro, presidente di Italia Bio, padre di un giovane che ha esportato la sua idea di vino in Canada: «Sotto questo punto di vista il settore bio viticolo siciliano presenta grandi potenzialità ma rimane ancora molta strada da fare, investendo sulla capacità di interpretazione del fattore ambientale, adottando sistemi a basso impatto e valorizzando i lieviti autoctoni per la caratterizzazione ambientale». I primi passi, partendo dal meridione della Sicilia, sono stati già fatti e anche tra i consumatori c’è una nuova coscienza.

 

«Tra i consumatori c’è voglia di bere cose diverse e le varietà si ritrovano nei vini artigianali che cambiano con gli elementi della natura e dei terreni. Soprattutto negli ultimi 3 anni il consumatore ha cambiato stile di vita e adesso va in cantina sicuro di ciò che vuole bere e riconosce e chiede i vini artigianali, c’è una cultura diversa che rispecchia lo stile di vita diverso dei consumatori», conclude Salvo Ognibene, cresciuto a Menfi, città del vino. Nel mondo che guarda con attenzione al rispetto dell’ambiente, il nettare degli dei diventa ancora una volta la via della salvezza.