Il ministro Sangiuliano ha indetto per la prima volta dal 2016 un concorso per archivisti e bibliotecari. Ma le associazioni di categoria lo considerano insufficiente. E i giovani addetti si barcamenano tra speranze e criticità

Gli archivisti sono 268. E poi 130 bibliotecari, 35 storici dell’arte, 32 architetti, 20 archeologi, 15 restauratori, 10 demoetnoantropologi e 8 paleontologi. Questa la «notizia folgorante» annunciata a inizio novembre dall’allora neo sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi ospite da Fabio Fazio a Che tempo che fa. Questi i numeri del bando indetto dal ministero di Gennaro Sangiuliano in scadenza il 9 dicembre (e proprogato al 9 gennaio).

 

Non si può dire che il mondo della cultura non stesse aspettando un segnale dal dicastero di riferimento. Quello annunciato dal critico d’arte, ricordano i referenti di Mi riconosci – associazione che rappresenta i lavoratori del settore – è «il primo concorso per funzionari pubblicato dal 2016». Così, «non solo il ministero, ma anche le migliaia di persone che speravano di poter mettere a disposizione la propria professionalità, vi riponevano grandi aspettative».

 

Aspettative deluse, per diversi motivi. A cominciare dai numeri «che risultano del tutto inadeguati rispetto alle carenze e ai bisogni del ministero», per continuare con l’esclusione di alcuni titoli di laurea dal concorso e il fatto che venga richiesta una certificazione post laurea «per partecipare a un normale concorso da funzionario».

Nessuna “folgorazione”, quindi, per i diretti interessati. La maggioranza dei lavoratori dei musei, bibliotecari, archeologi, continueranno a vivere la propria condizione lavorativa alle prese con esternalizzazioni, cooperative, partite Iva. Come Federica P., 28 anni, che lavora in una galleria nella provincia di Gorizia e si racconta a L’Espresso.

«Ormai si ricorre all’esternalizzazione per qualsiasi ruolo, per cui si invia il curriculum alle cooperative o comunque alle società che gestiscono i musei. In particolare per la didattica, che è l’ambito in cui lavoro io, le strade sono due: o si lavora a prestazione occasionale/Partita Iva, oppure a contratto con la cooperativa. Il contratto, poi, non sempre corrisponde al livello di istruzione e di competenze e al livello di compiti svolti all'interno del museo. Per cui molto spesso si è sotto inquadrati. È stato il mio il caso».

Dopo il primo impiego presso una galleria in cui la paga oraria corrispondeva al netto di poco più di 6 euro, adesso Federica è stata assunta con un contratto a tempo «molto determinato» presso un museo privato. «Le condizioni sono migliori, sicuramente, però sono sotto-inquadrata tanto quanto prima. Svolgo anche delle mansioni di segreteria e prenotazione dei gruppi, che non sono riconosciute all'interno del mio contratto. Anche se il museo è privato, poi, sono assunta tramite un intermediario». La sua paga oraria, ancora, non tocca la soglia minima dei 10 euro, ma «corrisponde a circa 8.50 euro».

 

L’esperienza di Federica P. è condivisa da molti colleghi, non solo lavoratori dei musei. In un sondaggio promosso da Mi riconosci nel 2019, la maggioranza degli addetti alla cultura intervistati, corrispondenti al 34.2 per cento, dichiarava di avere una paga oraria compresa tra i 4 e gli 8 euro. Al secondo posto, con il 27.2 per cento, chi percepiva una retribuzione tra gli 8 e i 12 euro all’ora. L’11.4 per cento aveva dichiarato di essere pagato meno di 4 euro l’ora.

Queste le retribuzioni più diffuse per lavoratori cui spesso è richiesto un alto livello di specializzazione. Come Gabriele Magnolfi, che lavora in una biblioteca a Prato, assunto da una cooperativa. Dopo anni di contratti rinnovati a cadenza trimestrale è stato assunto a tempo indeterminato. «Ho iniziato alla biblioteca con il servizio civile», racconta. «Con il primo contratto ero stato assunto per 23 ore, ma i primi tempi mi sono trovato spesso che a fine mese ero arrivato a fare anche 40-42 ore senza maggiorazione sullo straordinario. Ancora adesso faccio ore in più rispetto a quelle che ho di contratto. Questi extra vengono pagati, ovviamente, però, per la malattia e le ferie la base su cui ti pagano è quella dell’orario previsto dal contratto».

 

Durante il suo colloquio con L’Espresso la voce di Gabriele racconta la passione per il proprio lavoro. Nonostante le difficoltà, che pure sono tante. Oltre alla paga, anche la tipologia di contratto inadeguata che spesso viene applicata a lui e ai suoi colleghi: «Federculture, che sarebbe il contratto di categoria, è raccomandato ma mai applicato». Al suo posto, al vertice del questionario dell’associazione Mi riconosci, figurano Multiservizi (22.8 per cento), Commercio (18.5 per cento), Pubblica amministrazione (16.6 per cento), cooperative sociali (14.7 per cento). L’ultima è anche la tipologia con cui è stato assunto Magnolfi che a 33 anni è riuscito a fare un mutuo, «e comunque c’è sempre il pensiero di dire “speriamo che regga la baracca” perché quando si ha a che fare con le cooperative non si è mai davvero sicuri».

Se molti all’interno del settore possono avere storie simili, per la maggior parte degli archeologi si pone anche un tema diverso. Secondo il rapporto Archeocontratti, promosso dalla Confederazione italiana archeologi, i cui risultati verranno resi pubblici all’inizio del 2023, circa il 78 per cento di questi professionisti è un lavoratore autonomo a Partita Iva. Dato che, secondo Giovanna Calabrò, archeologa e referente di Archeocontratti, non rappresenta necessariamente un problema: lo diventa però nel momento in cui «nell’84 per cento degli accordi non c’è nessun rimando al contratto nazionale per l’edilizia che sarebbe quello di riferimento per la maggioranza dei professionisti che lavorano nell’assistenza archeologica in corso d’opera e nell’edilizia preventiva». Se si pensa che nel 2016, anno del precedente monitoraggio di Archeocontratti, il numero di persone che veniva ingaggiata senza menzione al contratto nazionale corrispondeva al 77 per cento, si vede come le condizioni, nonostante un aumento di disponibilità di posti di lavoro, non sono andate migliorando.

 

Contattata da L’Espresso, Angela Abbadessa, presidente della Confederazione italiana archeologi, conferma l’analisi della collega. «Quando ho cominciato a lavorare, prendere la Partita Iva è stata una necessità, e poi ha continuato a esserlo. Andando avanti mi sono resa conto che essere una libera professionista può avere i suoi lati positivi, ti permette di scegliere la tipologia di lavoro che preferisci. Questo a patto di una base retributiva adeguata. Però, anche se per molti di noi può diventare un’opportunità, non è mai una scelta».

 

Quando si tratta di definire cosa significhi «base retributiva adeguata», Abbadessa non ha dubbi: «Per poter essere considerata realmente conveniente la paga dovrebbe essere almeno di 30 euro lordi all’ora». Questo perché, oltre al livello di competenza richiesta, bisogna considerare la quantità di spese che un libero professionista deve affrontare rispetto a un dipendente. Nella realtà questo non avviene. La maggioranza degli archeologi riceve una paga giornaliera tra i 100 e i 150 euro a fronte di 8-9 ore di lavoro. Quasi la metà della soglia di convenienza. Non è un caso, quindi, se il campione del sondaggio di Archeocontratti è rappresentato perlopiù da persone fino ai 35-40 anni di età. Molti dopo un certo periodo, commenta Calabrò, «scelgono di cambiare mestiere, a volte campo di lavoro, per mancanza di prospettive di stabilità».

 

Nessuna richiesta di pietismo, però, nelle parole di Federica, Gabriele, Giovanna, Angela. Tutti, semmai, accettano di mettere a disposizione la propria storia, che è un frammento di quella di tutti, perché credono nell’importanza di sviluppare una «coscienza collettiva», per il futuro di un mondo professionale per cui vale la pena lottare.