«Abbiamo protestato contro l’alternanza scuola lavoro: siamo ancora ai domiciliari dopo mesi»

Sono gli studenti scesi in piazza a Torino. Due di loro hanno il braccialetto elettronico e il divieto di comunicare con persone diverse dai conviventi. Sara: «Prima di tutto questo lavoravo e studiavo, avevo una vita»

Picchiati, arrestati, dimenticati. Gli studenti che sono scesi in piazza a Torino per protestare contro l’alternanza scuola-lavoro sono ancora sottoposti a misure cautelari. In attesa del processo che inizierà a febbraio. «Innocenti fino a prova contraria ma reclusi da sette mesi» denuncia Irene, la madre di Emiliano, uno dei ragazzi arrestati.

 

Dopo la manifestazione dello scorso 18 febbraio - quando secondo la Digos undici persone tentarono con bastoni, petardi e lancio di oggetti di fare irruzione nella sede di Confindustria – tre ragazzi sono finiti in carcere, quattro ai domiciliari e quattro con l’obbligo di firma. Perché avrebbero lanciato vernice contro l’edificio e cercato di entrare. «Sono ventenni incensurati, sottoposti a misure insolitamente dure per il tipo di reato che gli viene contestato: resistenza a pubblico ufficiale. Emiliano e Jacopo dopo essere stati in carcere fino allo scorso 6 giugno vivono in casa con il braccialetto elettronico e il divieto di contattare chiunque – conclude Irene - Francesco, che pure è stato in carcere, adesso è agli arresti domiciliari».

Come Sara che durante la manifestazione parlava al megafono.

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Sara, di che cosa sei accusata?
«Di concorso morale in resistenza aggravata a pubblico ufficiale. Non ho compiuto il reato ma secondo la ricostruzione della polizia, attraverso il mio speakeraggio, quindi, con gli interventi che ho fatto al megafono durante la manifestazione, ho concorso alla realizzazione. Il reato che permette l’applicazione della carcerazione preventiva è quello di resistenza a pubblico ufficiale. Ma noi siamo accusati anche di lesioni nei confronti delle forze dell’ordine. Così lo scorso 12 maggio, alle 5 di mattina, è arrivata la polizia a casa per portarmi nella caserma di Porta Susa, dove ho incontrato gli altri imputati. Io, a differenza di Jacopo e Emiliano, non ho avuto misure aggravanti della cautelare: posso avere contatti con gli altri, usare i dispositivi di comunicazione, non devo indossare il braccialetto elettronico. Quello che stanno vivendo loro, invece, è molto pesante anche a livello psicologico. Sono ormai da 5 mesi in questa situazione, senza essere stati giudicati colpevoli di niente».

 

Come è cambiata la tua vita da maggio?
«Anche per me non è facile. Avevo una vita prima di tutto questo: lavoravo e studiavo. Ho 20 anni, sono iscritta al primo anno di Scienze della formazione e facevo l’operatrice sanitaria. Da quando sono agli arresti domiciliari ho lasciato il lavoro mentre porto avanti lo studio. Ma chiedo i permessi per uscire solo per gli esami, così il primo anno di università è stato diverso da quanto mi immaginavo: nessuna occasione di confronto con studenti e professori, studio individuale e basta. Praticamente la mia giornata-tipo è simile a quella di chi ha la febbre. Per fortuna ricevo molte visite».

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Quando ci sarà il processo?
«Inizierà a febbraio per me, Emiliano, Jacopo e Francesco. Perché su richiesta del Pm noi quattro siamo stati divisi dal processo collettivo. Per noi si avvierà un altro processo con giudizio immediato. Che ha fatto saltare i termini burocratici delle misure cautelari, che scadono dopo 6 mesi se non viene notificata la prima udienza. Sarebbero dovute terminare a novembre. Mi sembra che ultimamente le pene per i reati legati al dissenso si stiano inasprendo, nonostante gli anni di militanza politica che ho alle spalle non ho mai visto arrestare degli studenti con questa facilità».

 

Ma che cosa è successo il 18 febbraio?
«Ci sono molti video che lo raccontano. Secondo me, però, è fondamentale contestualizzare con quanto stava accadendo in quei giorni. Le mobilitazioni studentesche erano molto vivaci e la polizia le stava reprimendo con forza. Così siamo arrivati al 18 febbraio dopo settimane di occupazioni e di prese in giro da parte della politica e delle istituzioni, come il ministero dell’Istruzione che faceva orecchie da mercante di fronte alle nostre richieste e il ministero dell’Interno che pur di sminuire le proteste parlava di “infiltrati”. Quando siamo arrivati davanti a Confindustria, che viene considerato il simbolo del sistema che assoggetta la formazione al profitto, per cui erano morti gli studenti durante l’alternanza, una parte cospicua del corteo ha cercato di aprire le porte della sede. E c’è stata una colluttazione con la polizia».

 

Al megafono che dicevi?
«Stavo facendo quello che fa di solito uno speaker durante le manifestazioni politiche: spiegavo che succedeva perché non tutti riuscivano a vedere. Ed elencavo le motivazioni che ci hanno portato a compiere il gesto».

 

Da quando sei agli arresti domiciliari hai cambiato prospettiva?
«Sicuramente un’esperienza del genere ti cambia. Perché dimostra che le istituzioni puntano a silenziare chi esce dal piano che viene considerato “accettabile”, anche quando riguarda le pretese che abbiamo sulla nostra vita, per un futuro migliore, una scuola diversa. Da un lato punire noi è un modo per dare l’esempio agli altri. Ma dall’altro altro lato la mobilitazione studentesca stava crescendo, stavamo costruendo le basi per diventare un’organizzazione stabile. Penso sia stato questo a generare maggiore preoccupazione. Oltre al fatto che a Torino da anni la procura usa il pugno duro con chi manifesta».

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