Le anziane ricordano di aver patito la miseria. Le giovani vogliono darsi da fare. Dalla vendita di calzini e berretti si ricavano soldi per sostenere progetti umanitari in Africa

La memoria della miseria non si cancella. È una lezione perenne, incisa nell’anima per tutta la vita: ti insegna che la solidarietà è l’unica risorsa per andare avanti. Rosalba Polzot ha 89 anni, gli occhi vispi incorniciati da capelli di neve: è nata e cresciuta in Carnia, tra montagne aspre e boschi monumentali. Ha visto la guerra, con i tedeschi che avevano consegnato questa terra ai feroci cavalieri cosacchi: «Le ragazzine come me si arrampicavano su sentieri e mulattiere per rifornire di cibo, medicine e munizioni i partigiani».

 

Ma soprattutto Rosalba ha vissuto la fame: «Accompagnavo le bestie al pascolo e per guadagnare qualcosa consegnavo il pane nelle case dei ricchi. Avevo il gei (la gerla ndr.) sulle spalle con il profumo delle pagnotte appena sfornate. Io però non potevo permettermele: per noi c’era solo un po’ polenta e spesso neanche quella, tanto che dovevamo allungarla con le patate». 

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Oggi il Friuli è un’oasi di benessere. Nonna Rosalba ha figli sistemati e una nipote laureata ma non dimentica chi ha bisogno di aiuto. Usa la sapienza delle sue mani con i ferri per confezionare calzettoni di lana, che vengono venduti per finanziare un programma di sviluppo in Africa. «Non ho mai lasciato la Carnia e non conosco quei paesi. Ma so cosa significa non possedere nulla e questo mi basta».

Rosalba è una delle volontarie che sostengono il progetto “Fiesta dal Cjalcin” (Festa del Calzino ndr), un’iniziativa nata nel 2017 in Val Pesarina dove Rosalba vive. «È un evento per raccogliere fondi destinati ad aiutare altre persone costruendo pozzi d’acqua potabile, ma è anche un modo per mettere in relazione la nostra comunità. Si sono creati piccoli laboratori nelle valli in cui le donne più anziane tramandano la loro conoscenza: un filo di lana che unisce culture differenti e tiene viva la memoria», spiega Paolo Agostinis, primario di medicina interna all’ospedale di Tolmezzo.

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E così ragazzine venute dalla città si ritrovano ad ascoltare nonne che non sono mai uscite da questi monti: si fanno insegnare come realizzare a mano calzini e berretti di lana. Il loro motto è quello di una leggenda africana che racconta di un incendio: «Il re della foresta, il leone, e tutti i grandi animali, fuggivano lontano dalle fiamme. Un piccolo colibrì, invece, con una goccia d’acqua nel becco volava verso le fiamme. Il leone gli gridò: “Credi di poter spegnere l’incendio con la tua goccia d’acqua?!”. Senza fermarsi il colibrì rispose: “Faccio la mia parte”». 

Quando nonna Rosalba ascolta le storie dei migranti africani è come se si specchiasse. «Mio padre è morto giovane, a soli quarant’anni, e mi sono ritrovata orfana che ero piccolina. È stata dura. Quando poi mi sono sposata, mio marito Remo è andato a lavorare in Francia come carpentiere. Sono rimasta qui ad aspettarlo mentre crescevo i nostri figli. È la nostra storia, com’è possibile dimenticarla?».

Quelle calze di lana che oggi sostengono i villaggi della Tanzania sono parte dell’identità delle montagne friulane. «Facevamo su e giù dalla montagna con il gei (la gerla ndr) sulle spalle per portare il fieno alle mucche, ma le mani erano libere. Così camminavi e sferruzzavi: sciarpe, cappelli, maglioni. Non c’era tempo da perdere». Lo facevano tutte le donne, d’ogni età. Il fidanzato come pegno d’amore non regalava un anello ma il gugjet: un monile a forma di cuore, fissato alla cintura, con una cavità che nelle salite proteggeva il fianco dai ferri della maglia. 

«La prima cosa che imparavi a fare erano i calzini, perché mica si compravano e la maggior parte delle persone non possedeva scarpe adatte al freddo. Adesso per questo progetto io e altre vecchiette lo insegniamo a ragazze giovanissime». Aiutano l’Africa e riscoprono le loro radici.

«La povertà non s’insegna all’università», nota il dottor Agostinis: «Quando entri nella quotidianità di queste persone comprendi l’importanza di beni essenziali come l’acqua pulita. Per questo costruiamo i pozzi». Quattro li hanno realizzati nell’isola di Pemba, in Tanzania, un altro in Benin. Non solo, da anni in collaborazione con la fondazione Ivo de Carneri di Milano e un gruppo di giovani medici portano avanti corsi per aiutare gli infermieri e i pochi medici locali: «Cerchiamo di insegnare a fare diagnosi attraverso l’interpretazione dei sintomi e dei segni clinici ed ecografici, non disponendo spesso di altri strumenti diagnostici se non il microscopio, e soprattutto di mettere in campo misure per prevenire le patologie».

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La mancanza di acqua potabile ad esempio causa malattie parassitarie, tifo, colera. «Sulla causa della nostra malattia un solo sguardo ai nostri cenci ti direbbe di più» si legge in “Discorso di un lavoratore a un medico” di Bertolt Brecht. E Agostinis ne è convinto: «La causa della tubercolosi non è il bacillo, come ti insegnano, ma la povertà e la malnutrizione che permettono al bacillo di provocare la malattia». Agostinis crede che l’egoismo della nostra società sia diventato autolesionista. «Penso ai vaccini contro il Covid-19. Li neghiamo all’Africa e proteggiamo i brevetti che arricchiscono Big Pharma più della vita di un continente. Poi però le varianti del virus nate in questi Paesi lasciati senza difese rendono più feroce la pandemia in tutto l’Occidente. Guardate cosa sta accadendo con Omicron...». 

La malattia non bada al colore della pelle. Il progetto è dedicato anche alla memoria di Andrea Menis, ucciso in Friuli da un morbo rarissimo che normalmente si riscontra soltanto in Africa: il tumore di Burkitt causato dal virus di Epstein Barr. Da noi in genere causa la mononucleosi, ma nei Paesi poveri lo stesso virus determina un linfoma incurabile, proprio quello che ha colpito Andrea. La famiglia ha voluto che dal sacrificio di Andrea sbocciasse una speranza e ha contribuito al finanziamento per la costruzione dei pozzi nell’isola di Pemba.

Sulla fontana del villaggio di Rui c’è la foto di Andrea e una scritta in lingua friulana: «Mandi amis no us cognos’ ma jo sai che un got di aghe je in podè di cujet â la veustra s êt e fa su i vuestris siums» («ciao amici, non vi conosco ma so che una goccia d’acqua può placare la vostra sete e accendere i vostri sogni», ndr). Non lontano nella scuola N’Dagoni, un altro pozzo permette a 1.600 studenti di bere e lavarsi. Nel villaggio di Mtamba è stato realizzato invece un pozzo grazie al supporto di un’altra famiglia carnica, quella di Giada Maieron, avvocata attenta ai più deboli scomparsa prematuramente. Agostinis mostra le foto e si commuove ricordando Yahya, l’ingegnere di Pemba che ha installato la pompa e l’impianto solare che l’alimenta: «È morto per Covid-19, tutti i mesi mi ha inviato lo stato d’avanzamento dei lavori. Ora se ne occupa Nayha, una sua collaboratrice». 

Adesso le bambine di quei villaggi non devono più alzarsi all’alba e camminare per ore prima di riempire le taniche con l’acqua per cucinare. Non rischiano più, a piedi scalzi nella luce ancora debole, di essere attaccate dalle vipere. La stessa marcia che un tempo toccava alle loro coetanee in Carnia per raggiungere la sorgente. Un altro mondo, che sembra così distante mentre invece nonna Rosalba lo ricorda bene.

«Andavamo a servire o sotto padrone già a 10 anni. Io ho iniziato facendo la bambinaia, a 14 anni ero già emigrata in cotonificio a Gallarate. Ho ripreso le scuole medie a 25 anni, alle serali, poi il corso da infermiera e alla fine sono orgogliosa: mi sono presa la laurea in Sociologia e anche in Teologia». 

Nives Baldacconi ha 75 anni ed è una caposala in pensione, sempre in prima linea dal terremoto di Norcia allo tsunami in Sri Lanka con gli ospedali da campo degli Alpini e il cappello con la penna nera consegnato dal suo papà.  Agostinis la chiama «valore aggiunto», dalle missioni in Africa alla Carnia, perché Nives coordina tutte le volontarie. Porta la lana a Luce Mecchia, 93 anni e i ricordi della guerra; a Fides Martin che ha trovato un modo per far rivivere suo figlio, a Vilma Montenuovo che a 102 anni continua a sferruzzare davanti allo spolert (stufa a legna ndr) e recupera i fili scartati perché non si butta via niente.  «Molte si sentivano inutili e la pandemia ha creato ancora più solitudine. Altre sono nelle case di riposo. Così invece si sono ritrovate unite da una doppia catena di solidarietà», dice Nives. 

Una solidarietà che è anche lirica. Prima di Natale per tre giorni nella neve della Val Pesarina ci si mobilita per chi sta nella siccità dell’Africa. Uno dei momenti più partecipati è la lettura dei versi di Pierluigi Cappello, il poeta friulano che proprio il dottor Agostinis ha assistito nella lunga malattia. «Ho soltanto i miei occhi nei vostri e l’allegria dei vinti e una tristezza grande», ha scritto nella sua poesia “Parole povere”. Lui, «un uomo di montagna, aperto alle ferite», spesso ricordava la faglia aperta dal terremoto del 1976: il prima e il dopo di quello stare in bilico per sempre. Una parte del Friuli rimasta sepolta e l’urgenza di recuperare l’essere parte di una comunità perché: «Se dico io e individuo il mio io più profondo, in realtà dico noi».

«Nelle foto di quei villaggi africani vedo tantissimi bambini. Sorridono tutti. Mi fanno ripensare al borgo in cui sono cresciuta, pieno di bambini. Anche noi avevamo pochissimo e bastava una patata per renderci felici», ricorda nonna Rosalba. 

Ora in questi paesi tra i monti rimangono spesso solo vecchi ed è sempre più difficile incontrare un sorriso. E siamo noi che stiamo diventando il deserto.