Veri e propri appartamenti senza sbarre né cancelli. Ma comunque controllati. Un esperimento per salvaguardare i bambini e la relazione con la madre

Che cos’è casa, che cos’è vita, che cos’è mondo? Potrebbero essere queste le domande dei bambini che vivono in carcere. Sono i «bambini galeotti», come sono stati definiti con uno stridente ossimoro da Luigi Manconi, ex senatore e presidente dell’associazione A buon diritto.

 

Minori piccoli e piccolissimi che condividono con le loro madri un destino di reclusione di cui non sono responsabili, ma che hanno ereditato insieme al latte materno, come condizione quotidiana del loro vivere. I bambini reclusi in Italia si trovano attualmente in due tipologie diverse di strutture: nei reparti ordinari delle carceri e negli Icam, “Istituti a custodia attenuata”, creati in via sperimentale a Milano e a Venezia nel 2006 per permettere alle detenute madri che non possono beneficiare di alternative al carcere, di tenere con sé i figli fino all’età di sei anni. Gli Icam hanno certamente un aspetto meno inquietante del carcere, ma di fatto lo sono: non permettono libere uscite e hanno sbarre alle finestre. Per i bambini che ci abitano, casa, vita e mondo sono una prigione. Casa è un luogo che non appartiene, vita è la routine carceraria, mondo è un perimetro chiuso che comunica con l’esterno solo per approssimazione. Un fuori che è lì a portata di mano, ma che è praticamente inattingibile. Perché se casa è carcere, il confine tra dentro e fuori è una porta blindata. Il confine è anche una parola, un termine che non appartiene al loro vocabolario. Si chiama libertà.

Inchiesta
La vergogna italiana dei bambini in carcere
25/3/2022

C’è pure un’altra parola e quella sì che fa parte del loro lessico, ed è maternità. A tutti i bambini che vivono nelle carceri italiane viene chiesto ogni giorno di barattare la libertà con la maternità. Alle loro madri viene imposto di scegliere tra due condizioni: quella di tenere con sé un piccolo galeotto o di privarsene fino a fine pena. Così, se la condanna della madre è quella di rinunciare al figlio, la pena del figlio è di non sapere che al di là di quella porta blindata c’è un’altra idea di casa, di vita, di mondo. Quali sono le domande dei bambini che vivono in carcere? Saranno le stesse dei loro coetanei che non hanno mai avuto la necessità di mettere in discussione la parola “casa”? Oppure – e sarebbe questa la prospettiva più triste – di domande non ne hanno affatto perché non possono immaginare altra vita, altro mondo, altra casa che quella in cui loro malgrado sono costretti?

 

La situazione di questi bambini, ne sono convinta, è un dilemma atroce anche per il legislatore, che per mestiere si trova a decidere per gli altri e che, quando si tratta di minori, ha tra le mani una materia fragile e preziosa, che si sciupa in un niente. E proprio per questo vanno immaginate altre soluzioni, per fare in modo che nessun bambino debba più essere privato della propria libertà.

 

Una di quelle che sembrano più idonee a salvaguardare la vita del bambino e la relazione con la madre è quella delle Case-famiglia protette, veri e propri appartamenti, inseriti nel tessuto urbano senza sbarre né cancelli ma comunque controllate, da cui le madri possono uscire per accompagnare a scuola i figli e assisterli nel quotidiano. Un esperimento che, se esteso a diverse realtà italiane, potrebbe sollevare le madri dal dover scegliere per i loro figli tra due mali: la lontananza e la prigionia. Perché il non dover scegliere, in qualche caso, è la vera libertà.