Sono 16 i piccoli reclusi con le madri e solo la pandemia ha ridotto il numero. Uno scandalo che il Parlamento non riesce a cancellare. «Quando vedi tuo figlio aggrapparsi alle sbarre di una cella, piangere a ogni perquisizione, ti senti morire come madre»

Nadia ha cinque anni, occhi vivaci e carnagione olivastra. I primi tre anni della sua vita li ha passati dentro una cella di un carcere italiano, dove ha pronunciato le prime parole e mosso i primi passi. Sua madre, Luisa (nome di fantasia), è stata arrestata durante un furto in una abitazione, e per un cumulo di reati è stata condannata a 7 anni di carcere. La recidiva, come spesso accade, ha escluso misure detentive alternative, e nonostante la gravidanza avanzata il giudice ha scelto di collocarla nel carcere femminile di Rebibbia e poi, una volta nata la bambina, nella sezione nido. «I miei figli hanno pagato un prezzo troppo alto per errori che non hanno commesso», confessa la donna. «Quando vedi un bambino aggrapparsi alle sbarre di una cella, piangere e tremare a ogni perquisizione a sorpresa, ti senti morire come madre».

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Nadia non è da sola: ha un fratello più grande di due anni, che ha vissuto le sue stesse esperienze, e come lei sono ancora troppi i bambini che in Italia continuano a nascere e crescere dietro le sbarre di una cella. Al momento nel Paese sono 15 le madri (5 italiane e 10 straniere) e 16 i bambini detenuti in carcere, distribuiti tra le sezioni nido - se presenti - all’interno dei penitenziari, gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) e le case famiglia protette. «Sono numeri relativamente bassi (nel 2018 erano più di 60, ndr), frutto anche delle misure alternative e delle minori carcerazioni avvenute nel periodo pandemico per evitare focolai interni», sottolinea Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti. «Anche se rimangono comunque situazioni incomprensibili, come nel caso della Liguria: dove non è presente un Icam, ma è detenuta una madre con due bambini, soggetti alla solitudine e al regime penitenziario ordinario. Non è pensabile che un bambino non veda mai, o quasi mai, un filo d’erba, una strada, un paesaggio abitato», continua Palma.

 

STRUTTURE PROTETTE
«Nella Casa di Leda sono ospitate le donne con bambini che hanno commesso reati minori, come scippi, furti in appartamento, prostituzione. Si tratta di donne prive di risorse alloggiative, economiche e relazionali che in regime di espiazione di pena possono accedere ai benefici previsti dalle leggi Finocchiaro e Simeone del 2001», spiega il responsabile della struttura, Lillo di Mauro.

 

La casa famiglia protetta risponde alle linee della legge 62 del 21 aprile 2011, che prevede l’istituzione di strutture residenziali - di cui fanno parte anche gli Icam - destinate all’accoglienza di soggetti per i quali non vengano ravvisate esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. «Si tratta in sostanza di domiciliari: ogni donna ha a disposizione una camera per lei e per i figli, è presente un’assistenza sanitaria e una consulenza psicologica costante. Una situazione familiare in cui le madri recuperano il rapporto con i figli: cucinano per loro e li portano a scuola», continua Di Mauro.

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Le donne della Casa di Leda seguono corsi di formazione e possono uscire per lavorare. I bambini vengono seguiti da specialisti e possono godere di tante attività ludiche e ricreative grazie ad esperti e volontari. Un circolo virtuoso, che tuttavia si scontra con un problema logistico: sono solo due le strutture così. Per le altre donne c’è il carcere o la detenzione negli Icam. «La sezione nido di Rebibbia è sufficientemente adeguata, anche se è pur sempre una stanza all’interno di un carcere. Ci sono alcune strutture dove invece esistono solo “celle nido”, come nel carcere di Salerno. Che in fondo altro non sono che delle celle con bambini dentro», sottolinea Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone.

 

CUSTODIA ATTENUATA
Ma qual è la vera differenza degli Icam con il carcere? Siamo entrati in quelli di Milano e Torino. Il primo si trova al di fuori del perimetro carcerario di San Vittore, mentre il secondo è distante pochi metri dalla casa circondariale Lorusso e Cutugno. Le stanze delle madri, di fianco a quelle degli ammessi al lavoro esterno e dei semiliberi, si affacciano comunque sulle celle. È presente personale carcerario, ma non è in divisa; l’ambiente risulta complessivamente più neutro. C’è un limite di ospiti, la presenza di volontari, di operatori e operatrici e l’ambiente in sé aiuta i bambini a non sentirsi reclusi, anche se le regole restano le stesse in vigore nel penitenziario.

Il coinvolgimento della madre è maggiore e la vita dei piccoli scorre in modo più regolare, non essendo cadenzata dal regime carcerario, dove c’è l’ora del pasto, del sonno, dell’uscita all’aria della madre, del colloquio con i familiari, della passeggiata con i volontari (sospesa in tempo di Covid-19). Sia a Milano che a Torino i bambini che vanno a scuola, per farlo devono attraversare i cancelli. Sanno di essere in prigione. E i più grandi sanno anche che la colpa è della madre. Nei due Icam sono in tutto quattro le detenute presenti, con altrettanti figli al seguito. Si tratta di donne straniere, e nei loro racconti c’è tutto quello che un carcere fa a bambini così piccoli. Ricordano rumori, odori e paure dei loro figli. E dopo quell’incubo cercano di trovare la forza per risollevarsi.

Milano è l’unica città che vanta i tre livelli di custodia detentiva, e le madri detenute possono passare dalla sezione nido all’Icam e successivamente alla casa famiglia protetta. Un percorso, ci suggerisce una responsabile dell’Istituto, che le stimola a migliorare e inserisce i bambini in un contesto ricco di attività e di interazione con l’esterno. Un percorso, però, che cozza con un buco nero normativo: «Diverse ospiti non hanno documenti. Senza residenza e senza lavoro non possono averli. Ma senza documenti non trovano lavoro e una volta fuori per lo Stato italiano spariscono».

 

Di poca libertà hanno potuto godere anche due bambini, nati il settembre scorso nell’ospedale di Nola e in quello di Avellino, che in poco tempo sono passati dalla sala parto all’Icam di Lauro. Una delle donne che ha partorito è reclusa per furto e il neonato vive con lei in una cella arredata come un piccolo monolocale. «Gli istituti penitenziari sono istituzioni chiuse, quindi i bambini soffrono la mancanza di libertà e di stimoli, la mancanza di una figura paterna e la mancanza di una frequentazione continua con il mondo esterno. Situazione che si è aggravata con l’arrivo del Covid-19», commenta la dottoressa Flaminia Bolzan, psicologa e criminologa. Senza contare l’impatto che un ambiente carcerario può avere sullo sviluppo cognitivo del bambino. «Nella fascia di età tra i 3 e i 6 anni è fondamentale per il bambino la socializzazione e, venendo a mancare, in questi luoghi si perde anche la formazione del carattere e l’apprendimento sociale», continua Bolzan.

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Non a caso una delle madri ci confessa che suo figlio ha riportato un trauma profondo dopo il periodo passato nella sezione nido: parla con difficoltà ed è seguito da un logopedista e da un neuropsicomotricista. «Non ci sono attività all’interno del carcere, le celle si chiudono alle otto anche per i bambini, ed è frustrante vederli aggrappati alle sbarre e implorare gli assistenti sociali o gli operatori per un poco di tempo in più», dice la madre. «Apri. Ti prego, apri. È la prima parola che imparano i bambini in carcere. È stato uno dei momenti più difficili della mia vita, dopo quello in cui lo me lo hanno tolto perché aveva superato il limite di età».

 

AFFETTI SPEZZATI
La legge 62 del 2011, nata con l’intenzione di far uscire i bambini dagli Icam, prevede infatti che i più piccoli possano stare in queste strutture fino a sei anni d’età (alcuni fino ai dieci), contro i tre previsti in precedenza. Mentre nelle sezioni nido delle carceri, il limite massimo è tre anni. «Quando vengono tolti alla madre vengono dati ai familiari più vicini, oppure a volontari o ai servizi sociali che si impegnano a mantener vivo il rapporto del bambino con la madre», spiega Marietti. «È un momento devastante, perché viene alterato il rapporto affettivo madre-bambino, che purtroppo non sempre viene poi recuperato».

 

Come nel caso di Maria e della figlia Elisa (nomi di fantasia), che una volta a casa con i parenti ha cominciato a non voler più partecipare ai colloqui: «Si nascondeva sotto il tavolo, aveva paura che la tenessi con me». Storia analoga quella di Lorenzo, che dopo essere uscito dalla sezione nido e tornato dalla madre in un Icam non ha mai nascosto la necessità di una vita sociale normale: «Mi chiedeva perché non poteva andare al parco? Perché non poteva restare a casa di un amico di scuola? Molte delle mie compagne i bambini non li mandavano neanche fuori con i volontari, perché poi non volevano tornare, urlavano, avevano crisi isteriche», racconta la madre.

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La reclusione coatta in una cella induce quindi gravi effetti collaterali, anche nelle madri. Il caso più sconcertante della pressione cui sono sottoposte queste donne, è quello che si è consumato nel 2018 a Rebibbia, quando una detenuta tedesca di 33 anni ha gettato dalle scale della prigione i suoi figli: una bambina di 6 mesi e un bambino di 1 anno e 7 mesi, entrambi deceduti. «Bisogna ragionare anche su un potenziamento della rete di supporto e sostegno, perché molto spesso si parla di donne che arrivano da ambienti deprivati e devianti», dice Bolzan.

 

Sempre a Rebibbia, lo scorso settembre, una donna, costretta a rimanere in carcere al termine della gravidanza, ha partorito in cella senza un’ostetrica. Amra, 23 anni, italiana di origine bosniaca, ex residente nel campo rom di Castel Romano, arrestata per un furto alla fine di luglio, era già in uno stato avanzato di gravidanza e ancora in attesa del processo, ma il giudice della IV sezione penale del tribunale di Roma le ha imposto il carcere. «Senza un medico, senza nessuno in grado di fornirle l’assistenza sanitaria alla quale aveva pieno diritto. È un fatto che non sarebbe dovuto accadere», spiega Palma.

Anche perché una soluzione alla detenzione in un carcere c’è, come dimostra la proposta di legge del deputato Pd Paolo Siani. «Il testo propone case famiglia protette, individuate dal ministero, come strutture dove ospitare donne detenute con figli al seguito, e prevede il divieto di applicare la custodia cautelare in carcere per donne incinte o madri di bambini di età non superiore a 6 anni con lei conviventi», puntualizza Siani. Solo come extrema ratio, in caso di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, il giudice potrebbe disporre la custodia cautelare in un istituto a custodia attenuata per detenute madri, quindi un Icam. «La proposta va nel senso di salvaguardare l’integrità psicofisica dei bambini in un momento significativo della loro crescita», aggiunge Siani.

 

Oggi però è il contrario. Oggi sono la prigione o l’Icam la prima scelta. Da oltre un anno, infatti, l’iter per trasformare in legge la proposta è fermo. Nonostante l’entusiasmo con cui l’iniziativa di Siani è stata accolta anche dal governo, che aveva previsto dei fondi da destinare alle Regioni per la realizzazione di nuove case protette – approvati nell’ultima manovra di Bilancio – per un totale di 4,5 milioni di euro. Per la Campania, ad esempio, erano stati previsti 240 mila euro all’anno per i prossimi tre anni, ma al momento non è stata avviata alcuna casa famiglia. Tutto bloccato.

 

Eppure qualche mese fa la ministra della Giustizia Marta Cartabia aveva detto: «Mai più bambini in carcere», affermando che «anche solo un bambino ristretto è di troppo». Mentre l’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede ha confidato – anni dopo – di aver pianto quel giorno del 2018 quando la giovane detenuta gettò i suoi due figli dalle scale della sezione nido del carcere di Rebibbia. I politici di tutti i colori si sono interessati, per qualche settimana, delle condizioni dei bambini piccoli. Adesso però c’è bisogno di fatti concreti, oltre che di promesse.