Intervista
«Diciassette persone, fialette puzzolenti e un atto radicale: così cinquant’anni fa noi omosessuali siamo diventati visibili»
«Non ci potevano neanche nominare, eravamo isolati ai margini. E allora abbiamo capito che serviva avere una voce». Nel 1972 la prima protesta della comunità Lgbt in Italia a Sanremo cambia la narrazione sull’intero movimento. Parla Angelo Pezzana, il padre fondatore del FUORI in occasione del LGBT+ History Month
È il 5 aprile del 1972 quando il movimento omosessuale italiano inizia la sua rivoluzione. «Noi non lo potevamo neanche immaginare», racconta Angelo Pezzana, 82 anni, padre fondatore del F.U.O.R.I (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), il primo movimento Lgbt italiano nato nel 1970 dentro la sua libreria al centro di Torino.
Pezzana ha il volto severo e iroso, attraversa con la memoria i giorni che dal Casinò di Sanremo lo porteranno lontano: a un passo dalle carceri dell’Unione Sovietica fino al Parlamento italiano. La sua voce corre dentro questo racconto che intreccia le piccole cose quotidiane alla Storia con la lettera maiuscola, e intanto ci interroga su quello che abbiamo saputo decifrare, e imparare, dal tempo che abbiamo attraversato.
È un racconto commovente ed esatto di un secolo in cui “non ci potevamo neanche nominare, la parola più dolce che usava mia madre era ‘invertiti’”. Incontri clandestini nei cinema e nei parchi (“si diceva battere, ma cercavamo l’amore”), uomini ammazzati e dimenticati ai margini. «Avevamo bisogno di uscire Fuori. Nel dicembre del 1971 pubblicammo una rivista, ventimila copie che venivano distribuite nei luoghi a noi concessi: parchi, cinemini, bagni pubblici. Ma serviva qualcosa che ci rendesse visibili su giornali e televisioni. Dovevamo far capire che non eravamo solo i cadaveri ridotti dalle cronache nere agli ambienti particolari».
Sanremo è il palcoscenico del primo atto rivoluzionario italiano, dove un gruppo ridotto di uomini e donne prende azione e parola contro l’omofobia italiana. L’occasione era di quelle che la storia presenta una sola volta nella vita: il primo congresso internazionale di Sessuologia del CIS (Centro Italiano di Sessuologia) dal titolo “Comportamenti devianti della sessualità umana”.
«Di giorno lavoravamo. Eravamo un gruppo di insegnanti, intellettuali, artisti. Poi ci ritrovavamo a casa di qualcuno per fare autocoscienza. Una pratica che avevamo preso in prestito dalle nostre amiche femministe. Loro si riunivano e chiedevano a turno: come vivi la tua femminilità. Noi facevamo lo stesso parlando di omosessualità. Un giorno un amico si alzò e raccontò di questo convegno previsto a Sanremo». Bisogna inquadrare lo spirito del tempo, a un anno dall’uscita di un libro edito da Feltrinelli dal titolo “Diario di un omosessuale”.
Al suo interno Giacomo Dacquino, psichiatra e psicoterapeuta aveva registrato un paio d’anni di terapia con un ragazzo che la famiglia aveva obbligato a “curarsi” da lui. Dacquino aveva promesso “di restituirlo” eterosessuale. “Lo scopo di questo convegno era chiaro: definire l’omosessuale come una malattia, diffondere questo concetto e aumentare un mercato. Per noi non poteva che essere un’occasione per farci sentire”.
Lettere, telefonate e telegrammi. Il F.U.O.R.I entrò in movimento cercando di uscire anche dai confini italiani. «Oggi dicono che a quella manifestazione c’erano persone da tutta Europa. Ma sono balle. Eravamo pochissimi, circa 17, non certo i Pride di oggi. Riuscimmo a contattare il francese FHAR (Fronte omosessuale di azione rivoluzionaria) e il Gay Liberation Front britannico. Per la Francia arrivò Francoise d’Eaubonne con un suo amico gay, da Londra ci mandarono Mario Mieli che viveva lì da qualche anno».
Era un’azione radicale, sottolinea Pezzan ma con una specifica: “Da Partito Radicale, oggi usano la parola radicale per dire estremista. Ma non c’era nulla di estremo in quello che volevamo fare”.
«Ci ritrovammo lì davanti. Io andai da Torino con l’amore della mia vita: Alfredo Cohen, vivevamo insieme dal 1969». I cartelloni al collo con la scritta “Psichiatri siamo qui per curarvi”, “Gli omosessuali escono fuori e con orgoglio”, “Nessuno ha il diritto di reprimere la nostra sessualità”. E volantini da distribuire in un ingresso deserto. Angelo Pezzana vestito di tutto punto, insieme a Carlo Sismondi e Francoise d’Eaubonne entrarono dentro il Congresso pagando una quota e registrandosi come psichiatri: “Volevamo sentire cosa avrebbero detto. Con noi avevamo delle fialette puzzolenti. Ci eravamo detti, se succede qualcosa le rompiamo e disturbiamo il congresso poi a inizio lavori successe qualcosa”. Quel qualcosa era Francoise d’Eaubonne, filosofa francese che avrebbe introdotto da lì a poco il termine “ecofemminismo” sulla scena mondiale. “Si alzò e andò sul palcoscenico. Prese il microfono e sembrava Giovanna D’Arco, un intervento magnifico di ferro e di fuoco: siete qui per parlare di omosessualità, ma siamo noi a dover parlare di noi stessi. Non vi permetteremo più di definirci come malati, siamo qui per impedirvelo”.
Subito dopo ruppero le fialette puzzolenti. La sala iniziò a svuotarsi: “Ci fu un bel trambusto. Ci portammo i fazzoletti alla bocca e ci raggiunse un amico che si trovava fuori per dirci che era arrivata la polizia. Mi preoccupai moltissimo. Non per me, ma per Alfredo. Era una persona molto timida, la timidezza che accompagna sempre i poeti e gli artisti. Con quel cartello sulle spalle rischiava grosso: era un insegnante e non era pensabile un insegnante omosessuale all’epoca. Valeva lo stesso per Carlo Sismondi che era con me dentro la sala. Corsi fuori. Raggiunsi tutti e mi ritrovai le dita che mi indicavano. Il poliziotto aveva chiesto chi fosse l’organizzatore della manifestazione. Indicarono tutti me. Così mi lasciai accompagnare in stazione dalle forze dell’ordine. In tranquillità”.
Con tranquillità Angelo Pezzana sale in macchina, arriva in questura e mette tutto a verbale: siamo omosessuali, non siamo persone malate. Dobbiamo essere visibili. “Non avevamo chiesto il permesso alla questura. Non sapevamo neanche che avremmo dovuto farlo. Ingenui certamente. Ma la polizia non fece troppe storie. Poco dopo mi riaccompagnarono nuovamente al Casinò. Erano arrivati i giornalisti. La Rai, alcuni del Corriere della Sera ma soprattutto l’inviato della Stampa, Luciano Curino, un giornalista molto colto, tra l’altro affezionato cliente della mia libreria a Torino, la Hellas”.
Coincidenze che nel disegno grande della storia non sono mai coincidenze, dice Pezzana, bisogna metterle bene a fuoco per capirle: «Curino mi chiese se fossi anche io uno psichiatra, gli risposi che ero semplicemente omosessuale e gli chiesi di scriverlo. Era titubante. Del resto di noi si parlava solo come pederasti, malati. Non dovetti insistere molto. Gli dissi: ma lo scriva, sarà il primo giornalista italiano a farlo. E fu così. Il giorno dopo La Stampa parlava di noi dandoci dignità».
È una storia, questa, priva di vetrine rotte e marciapiedi divelti. Nessuno scontro, nessuna aggressione. Il F.U.O.R.I cresce nel paese a ritmo costante. «Nella società non era poi così pericoloso esporsi. L’Italia non ha mai promulgato delle leggi dichiaratamente omofobe. Venivamo lasciati ai margini, quello sì. Perciò cercavamo visibilità. Mia madre capì tutto dopo Sanremo. Aveva letto La Stampa, naturalmente. E così scoprì di me e di Alfredo. Le spiegai che convivevo con il mio compagno e che gli volevo bene. Non si usavano termini come amore, fidanzato. Lei pianse, subito. “Allora siete anormali”, ci disse ma senza intento offensivo. Poi anche lei si affezionò molto ad Alfredo. Erano diventati amici».
Una vita senza paura né vergogna: «Solo quando andai a Mosca cinque giorni ebbi davvero paura. Ho perso cinque chili, non riuscivo a mangiare nulla». Era il 1977, Angelo Pezzana volava a Mosca per protestare contro l’incarcerazione del regista Sergei Parajanov, accusato di essere un “degenerato”, come il codice penale sovietico definiva gli omosessuali, condannato a dieci anni.
«Mi iscrissi a un viaggio organizzato dall’agenzia turistica del Pci. Consentiva di andare a Mosca senza problemi. Ma telefonai a un mio ex compagno di liceo, all’epoca inviato per Il Corriere della Sera, Piero Ostellino. Gli raccontai che stavo preparando una protesta, avevo un lenzuolo bianco, un pennarello. Sarei andato a protestare nella piazza Rossa. Finita la telefonata Ostellino esclamò: “Sanno già tutto. Il Kgb controllava i giornalisti e infatti mi fermarono in piazza Rossa».
L’arresto di Pezzana fece il giro del mondo. Una fotoreporter del New York Times riuscì a immortalare il momento e Pezzana era certo: «Mi avrebbero spedito in Siberia. Ricordo ore di interrogatorio. Chiedevano i nomi di altri omosessuali. Mi minacciarono in tutti modi. Ma ero nel partito Radicale. Pannella era pronto a far scoppiare un pandemonio dal Parlamento italiano. Mi dissero: lei rischia di non mettere più piede in Russia. Risposi che avrei messo piede quando la Russia sarebbe diventata socialista. Si arrabbiarono ancora di più mi misero in macchina. Poi in cella. E poi in aeroporto, diretto verso l’Italia».
Era un tempo fuori dai cardini, di lotta per i corpi e visibilità. «Oggi più che grandi rivoluzioni servono grandi leggi. Quella delle unioni civili è servita. Adesso bisogna riformare le adozioni. Bisogna partire da una legge che sia al servizio delle persone e non delle ideologie. Abbiamo inventato i Pride che non si chiamavano Pride, le marce, le proteste. Ma adesso serve andare oltre. Oltre le ideologie e gli schemi rigidi della destra e della sinistra. Per la dignità di tutti».