Tutti assolti: nessun rapimento. I giudici della corte d’Appello di Perugia erano entrati in camera di consiglio dopo 8 udienze poco dopo le 10. Ne sono usciti dieci ore dopo, liberando tutti e 7 gli imputati dall’accusa infamante di aver partecipato a un sequestro di Stato, così come stabilito in primo grado. Si conclude così tra le lacrime e gli abbracci dei poliziotti, dentro un incubo lungo nove anni, il processo per il rimpatrio in Kazakistan, il 30 maggio del 2013 di Alma Shalabayeva, moglie del ricercato Mukhtar Ablyazov e della figlia Alua, di sei anni, dopo un blitz nella loro villa di Casal Palocco a Roma.
La donna era stata rispedita in patria con un velivolo noleggiato apposta dall’ambasciata kazaka a Roma.
Il provvedimento di rimpatrio si basava sul fatto che Alma Shalabayeva avesse esibito un documento, un passaporto della Repubblica Centroafricana, che era sembrato falso, salvo poi essere rocambolescamente accreditato come autentico dal nuovo esecutivo di quel Paese. Nel documento, l’identità della donna era Alma Ayan e non aveva mai formalizzato alcuna richiesta di asilo in Italia. Il marito, oltretutto, risultava latitante e non protetto dalla Gran Bretagna, dal momento che lo status di rifugiato era in corso di riesame per via dei suoi guai giudiziari.
La tesi opposta, sposata dai giudici di primo grado, era invece che l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano, investito da una tempesta politica, ma rimasto fuori dalle conseguenze giudiziarie, attraverso i vertici del Viminale, avesse filoguidato un’operazione di extraordinary rendition che si sarebbe tramutata in un «crimine di lesa umanità», come i giudici del tribunale hanno rimproverato ai sette finiti a giudizio, anello terminale di una catena di comando mai perseguita.
Si tratta di sei poliziotti, l’allora capo della Mobile, Renato Cortese l’uomo che catturò il boss Bernardo Provenzano, alla sbarra, con i funzionari Luca Armeni e Francesco Stampacchia, del capo dell’Immigrazione, Maurizio Improta, con i funzionari Vincenzo Tramma e Stefano Leoni e della giudice di Pace Stefania Lavore.
La storia ha inizio la sera del 28 maggio 2013 quando un gruppo di poliziotti fa irruzione nella villa di Alma Shalabayeva a Casal Palocco. L’ambasciata kazaka ha fornito l’informazione che lì potrebbe nascondersi Mukhtar Ablyazov, sedicente dissidente, ricercato per l’appropriazione di un malloppo consistente, sparito dalla principale banca del Paese. Ablyazov, ricercato con nota rossa Interpol non c’è. Ci sono invece la moglie che si presenta con il passaporto falso di Alma Ayan, la figlia di 6 anni, Alua, due domestici ucraini e i cognati di Ablyazov. I poliziotti, eseguita la perquisizione, trattengono la donna per accertamenti. E dopo la spediscono al Cie di Ponte Galeria, il centro di identificazione ed espulsione.
Il 30 si tiene l’udienza di convalida davanti al giudice Lavore che convalida. La sera stessa la donna sale sull’aereo noleggiato dai kazaki insieme alla figlia e viene spedita ad Astana e poi trasferita in casa dei genitori di lei ad Almaty. Dopo poche ore il suo avvocato denuncia l’abuso dell’espulsione di una donna che andava protetta per ragioni umanitarie e il caso deflagra anche in ambito europeo, tanto da far intervenire l’allora ministro Emma Bonino. Il Centro Africa dichiarerà l’autenticità del passaporto rilasciato con falsa identità per motivi di sicurezza e successivamente il provvedimento di espulsione verrà revocato. Nel dicembre successivo Alma Shalabayeva rientra in Italia con il proprio passaporto kazako e ad aprile dell’anno successivo ottiene lo status di rifugiata.
La ricostruzione, accolta con un surplus di aggravio di pena dal tribunale era invece, quella di una totale acquiescenza ai kazaki da parte del governo italiano. La vicenda si colloca a ridosso del rinnovo dell’esecutivo con la maggioranza delle larghe intese guidata da Enrico Letta. In quello stesso frangente Alessandro Pansa era arrivato al vertice della polizia dopo la morte di Antonio Manganelli e dopo qualche mese di reggenza di Alessandro Marangoni. Giuseppe Procaccini, il capo di gabinetto di Alfano, rimasto all’Interno anche successivamente con il governo Renzi, si era dimesso. Il Viminale aveva concluso l’indagine interna sostenendo che la procedura di espulsione era stata corretta, tesi ribadita anche recentemente, in risposta a una interrogazione parlamentare del dem Carmelo Miceli e l’unico appunto possibile riguardava le comunicazioni giunte dalla base al vertice circa la procedura seguita.
Insomma, per la polizia, la ricerca di Ablyazov aveva seguito la procedura ordinaria con il blitz a Casal Palocco. E anche il rimpatrio era stato corretto. Ma date le implicazioni doveva essere data comunicazione ai piani alti, cosa che era mancata. E dopo la lettura del verdetto, il capo della Polizia Lamberto Giannini, ex capo della Digos nel periodo della vicenda Shalabayeva, «ha accolto con grande soddisfazione», la pronuncia della corte.
Per gli imputati, accusati di aver tradito il giuramento di lealtà alla Costituzione, sono stati nove anni in bilico intorno a una tesi indimostrata: Alma Shalabayeva rimpatriata in Kazakistan per compiacere il regime di Astana con il quale l’Italia, Eni in testa, faceva ottimi affari. Senza però che venisse mai spiegato perché avrebbero dovuto farlo, visto che il processo non ha dimostrato che avessero obbedito a un ordine superiore violando le regole, né che avessero un interesse diretto nella vicenda.
All’accusa era bastato un incerto puntello: l’idea che l’allora capo della Mobile, Renato Cortese e il capo dell’Immigrazione Maurizio Improta si fossero accordati per trattenere la moglie di Mukhtar Ablyazov, per trovare un labile riscontro al postulato. E sostenere che Alma doveva essere trattenuta per snidare il marito latitante. Sta infatti tutta qui la tesi del sequestro di persona che ha atterrato le carriere di due funzionari costringendoli a un quasi riposo forzato dopo la sentenza di primo grado. Cortese si è ritrovato da questore di Palermo a una scrivania del Viminale. Improta ha dovuto lasciare la questura di Rimini e rimanere parcheggiato alla polizia ferroviaria.
Ex oligarca del regime di Nazarbayev, Ablyazov, scontato un anno dei sei comminatigli in patria per malversazioni, era fuggito prima in Russia e poi in Gran Bretagna. Inseguito dal sospetto, suffragato dalle pronunce di varie corti, di essersi impadronito di un bottino da 6 miliardi di dollari della Bta, la banca privata, poi nazionalizzata di cui era stato il padrone. Con il corollario della morte sospetta del suo ex socio. Ablyazov, datosi alla politica con un proprio partito di opposizione, da delfino del presidente si era fatto strenuo antagonista. E tale è rimasto dopo il passaggio di consegne, prima indolore, poi traumatico tra Nazarbayev e Tokayev.
Con un’abile campagna mediatica, dall’Inghilterra e successivamente dalla Francia, complici i buoni uffici della figlia maggiore Madina, residente in Svizzera, Ablyazov si è dato lo status di dissidente, inseguito dal temibile regime kazako, lasciando in ombra gli affari per nulla limpidi che lo avevano portato a essere il più ricco uomo del Kazakistan e poi, secondo la definizione dei giornali inglesi, un Bernie Mardoff del suo Paese, con opache operazioni finanziarie anche negli Usa, intorno alle torri di Donald Trump.
È accaduto anche che da rifugiato in Inghilterra, Ablyazov ha taciuto sul possesso di residenze milionarie e per questo condannato a 22 mesi per oltraggio alla Corte. Prima della sentenza ha trovato rifugio in Francia dove è stato arrestato pochi giorni dopo il rimpatrio della moglie. Dopo tre anni ha riacquistato la libertà e combatte ancora per non essere estradato in Kazakistan.
In primo grado a ottobre 2020 Cortese e Improta, Stampacchia e Armeni erano stati condannati a 5 anni, il doppio di quanto aveva chiesto l’accusa. Tramma a 4 anni e Stefano Leoni a tre anni e mezzo. Due anni e sei mesi per la giudice Lavore.
A Cortese e Improta era stato contestato anche di aver ingannato il capo della Procura di Roma Giuseppe Pignatone e il pm Eugenio Albamonte traccheggiando sulla falsa identità di Alma Shalabayeva per poterla espellere. I due magistrati non sono stati ascoltati in primo grado, mentre la corte d’Appello li ha chiamati a deporre. Entrambi hanno rivendicato la legittimità della propria scelta, ribadendo la falsità del documento esibito da Alma Shalabayeva e hanno certificato che in nessun caso era stato chiesto formale asilo da parte di Alma Shalabayeva.
In sentenza di primo grado i giudici avevano liquidato l’esemplare carriera di Cortese, lanciato verso i vertici della polizia, con una formula sbrigativa, “significativi successi professionali”, caricando le motivazioni dell’accusa di “alto tradimento”. Il superpoliziotto, ritrovatosi descritto come un aguzzino, quando anche il procuratore generale aveva richiamato quel verdetto, ha rotto due anni di silenzio e ha invocato “rispetto” per la propria storia. I giudici della corte d’Appello glielo hanno tributato per intero.