Alla fine di una crisi innescata dai Cinque Stelle, quelli che si volevano fare portavoce degli italiani, il presidente del Consiglio, in una versione più politica che tecnica, spiega in Senato perché si è dimesso e cosa l’ha convinto a non confermare le dimissioni: «Dobbiamo costruire un nuovo patto»

Ogni cosa poteva tornare più o meno a com’era una settimana fa. Soltanto Mario Draghi non era più lo stesso. S’è fatto politico. Almeno un po’. Nel suo discorso in Senato, iniziato con un evocativo «io credo che ci sia qualcosa che non funzioni», riferito ai microfoni e comunque adatto alla situazione, non ha cercato il consenso davanti ai parlamentari per sua solida convinzione, ma per rispondere agli appelli degli italiani, che l’hanno colpito, dice, commosso. Draghi ha manifestato dei sentimenti. S’è rivolto agli italiani. Anzi se n’è fatto portavoce. E pensare che quelli che si vantavano di esserlo, i Cinque Stelli, hanno innescato la quasi caduta del governo.

«All’Italia non serve una fiducia di facciata, che svanisca davanti ai provvedimenti scomodi. Serve un nuovo patto di fiducia, sincero e concreto, come quello che ci ha permesso finora di cambiare in meglio il Paese. I partiti e voi parlamentari, siete pronti a ricostruire questo patto?
Siete pronti a confermare quello sforzo che avete compiuto nei primi mesi, e che poi si è affievolito? Siamo qui, in quest’aula, oggi, a questo punto della discussione, perché e solo perché gli italiani lo hanno chiesto. Questa risposta a queste domande non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani». Quando i tecnici arrivano a salvare i partiti vuol dire che i partiti sono deboli. Quando i tecnici arrivano a farsi un po’ politici vuol dire che i partiti sono disperati. Lo scorso anno fu necessario una formula di “unità nazionale”: «Ritengo che un presidente del Consiglio che non si è mai presentato davanti agli elettori debba avere in Parlamento il sostegno più ampio possibile». Oggi che il sostegno s’è assottigliato, si va in ascolto degli italiani.  

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Questa mattina Draghi s’è mostrato corrucciato, quasi arrabbiato. Ha elencato le cose fatte e ha annunciato le cose da fare. Quello che gli riesce meglio. Ha ottenuto un applauso convinto per Falcone e Borsellino quando ha affermato che per onorare la loro memoria le mafie vanno tenute lontane dal Pnrr. Ha ottenuto un applauso più tenue quando ha ricordato il ruolo italiano nell’Unione europea e nell’Alleanza atlantica. Ha punzecchiato i partiti di maggioranza con l’accuratezza, scontata, di non citarli. La Lega di Matteo Salvini. E soprattutto il Movimento di Giuseppe Conte.

Ai Cinque Stelle non ha concesso niente. Ha parlato di un reddito di cittadinanza utile e però da migliorare. Ha confermato le sue intenzioni sul salario minimo e gli interventi sociali per ridurre le diseguaglianze. Ha ripetuto più volte che l’Ucraina va aiutata anche con le armi.

A questo punto, ha fatto intendere Draghi, l’appoggio dei Cinque Stelle è irrilevante. Si prova a siglare un altro patto, diverso, non più per cogliere l’appello del presidente della Repubblica, ma per non sottrarsi alle richieste degli italiani, identificati in sindaci, imprese, associazioni, intellettuali etc. La società degli italiani. «Mi sono sentito orgoglioso di essere italiano», ha scandito.