La tragedia della Marmolada è l’ennesimo segnale. L’aumento delle temperature continuerà e bisogna agire subito per contrastare l’emergenza. Ecco cosa prevedibilmente possiamo attenderci dai prossimi anni per i ghiacciai, biodiversità, emergenza idrica e agricoltura

Quali saranno le conseguenze del cambiamento climatico

Erano le 15 di domenica 3 luglio quando una porzione del ghiacciaio della Marmolada si è improvvisamente staccata dal corpo principale, scivolando sul letto inclinato verso valle a 300 chilometri all’ora e travolgendo diverse cordate di alpinisti, con un bilancio - quando scriviamo - di dieci morti e ancora tre dispersi. Una tragedia della montagna, che però non può essere distinta dalle condizioni meteorologiche anomale che sta attraversando il nostro paese né, in senso più lato, dall’emergenza climatica globale.

 

È difficile dire con certezza come si sia svolta la dinamica del distacco. Ma probabilmente l’acqua di fusione del ghiaccio per le alte temperature si è incanalata attraverso alcuni crepacci verso le profondità del ghiacciaio, aumentando il peso della massa in bilico e favorendone lo scorrimento. Una fusione intensa, ha scritto Giovanni Baccolo, glaciologo e ricercatore dell’Università di Milano Bicocca, ha sollecitato la struttura del ghiacciaio, portandone al collasso una parte. «Le cronache hanno parlato del distacco di un seracco - racconta Baccolo - ma non è un termine tanto corretto. Un seracco è una porzione di ghiaccio già quasi staccata dal corpo principale del ghiacciaio. Ne è un esempio quello che sta accadendo in Val Ferret». Dove, nei giorni scorsi, è stata evacuata un’ampia area nelle vicinanze del ghiacciaio Planpincieux, sul versante italiano del Monte Bianco, per il rischio di crollo di un volume di 400mila metri cubi di ghiaccio che si stanno muovendo a una velocità di un metro al giorno.

«Quando ci sono pericoli documentati, come in questo caso, i ghiacciai sono monitorati, ma il crollo sulla Marmolada è stato improvviso, imprevisto», continua Baccolo. «Lì il ghiacciaio si sta frammentando in tanti piccoli elementi indipendenti. Uno di questi frammenti era questa pancia di ghiaccio situata molto in alto, vicino a Punta Rocca, dove c’è la stazione della funivia». D’altra parte, il ghiacciaio simbolo delle Dolomiti ha perso circa il 70 per cento della superficie dalla fine dell’Ottocento, la fronte è arretrata di 650 metri nell’ultimo mezzo secolo e, secondo una ricerca pubblicata a fine 2019, ha perso il 30 per cento del suo volume in un solo decennio, tra il 2004 e il 2014. «È prevedibile che questi fenomeni possano aumentare, nel prossimo futuro, con strutture sempre più indebolite e compromesse. Si verificano già sull’Adamello, al Morterasch, al ghiacciaio dei Forni. Ma avvengono nella zona pianeggiante, in valle». Sulla Marmolada la pendenza ha aggravato l’evento, con le conseguenze che sappiamo.

 

Oltre a questa fragilità ormai strutturale, il ghiacciaio è stato in fusione continua per settimane, giorno e notte, con temperature minime che non scendevano mai sotto lo zero, ma non solo. «Già dall’inverno scorso stiamo vivendo una situazione climatica anomala», dice Serena Giacomin, climatologa, meteorologa e presidente dell’Italian Climate Network. «Abbiamo avuto un prolungato periodo di siccità, con precipitazioni nevose inferiori anche del 70 per cento alle medie stagionali. È piovuto poco, ed è nevicato meno. E il problema si è acuito in primavera. I primi cinque mesi del 2022 sono stati i più secchi degli ultimi 60 anni. Poi, con il prevalere dell’anticiclone africano, è arrivata un’estate anticipata, con temperature di diversi gradi più alte rispetto alle medie». Tanto che, nei giorni immediatamente precedenti il collasso del ghiacciaio, a Punta Rocca si sono misurate temperature minime che difficilmente scendevano sotto i 5 gradi, con lo zero termico stabilmente oltre i 4.000 metri. «È tutto collegato. L’anticiclone ha effetto anche sulle temperature in quota, e questo ha contribuito ad accelerare la fusione della poca neve invernale lasciando esposto e vulnerabile il ghiaccio sottostante».

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Come avvertono sempre i climatologi, però, non si può attribuire un singolo evento al cambiamento climatico. «Certo, non possiamo dire che un episodio definisca una tendenza climatica», conclude Giacomin. «Però si può senz’altro dire che questo fenomeno si inserisce nella tendenza climatica che stiamo osservando da decenni». Una tendenza che, in montagna, si acuisce più che in altri ambienti. «Ci sono tre fattori che concorrono a determinare il precario stato di salute delle montagne», conferma Elisa Palazzi, climatologa al Dipartimento di fisica dell’Università di Torino. «Il primo è un fattore a lungo termine. Sono decenni che osserviamo una tendenza al riscaldamento globale, e registriamo che le montagne si scaldano il doppio rispetto ad altre aree, un po’ come le regioni polari. Perché ci sono fenomeni che le rendono più sensibili, come la retroazione ghiaccio-albedo. La neve e il ghiaccio fondono, lasciando scoperti ampi tratti di roccia. La roccia è scura, e assorbe più radiazione solare, trattenendo più calore. Il che amplifica la fusione del ghiaccio. Poi, nella circostanza attuale, non c’era la neve invernale a proteggere il ghiacciaio. E infine le temperature elevate di questo inizio estate hanno fatto il resto».

Guardando al futuro, il destino dei ghiacciai alpini è segnato. «Quanto alla Marmolada - continua Elisa Palazzi - lo vedremo scomparire da qui a 25-30 anni. Anche a parità di clima attuale, vale a dire se le temperature non dovessero salire ulteriormente. Col clima funziona così. Oggi vediamo gli effetti di fenomeni innescati 10, 20, 30 anni fa». Perché i cambiamenti climatici hanno un’inerzia, «determinata dai ghiacci e dagli oceani, che hanno tempi più lunghi rispetto all’atmosfera. Per questo si mette l’accento sull’urgenza della decarbonizzazione e della mitigazione. Un ritorno al clima dell’epoca preindustriale è impossibile, alle condizioni di oggi, ma se si riuscisse a contenere l’aumento di temperatura a 1,5 gradi entro la fine del secolo ci assicureremmo un futuro più stabile sul nostro pianeta».

 

Il futuro dei ghiacciai alpini, però, potrebbe comportare un ampio ventaglio di conseguenze. «Intanto l’emergenza idrica, che già vediamo oggi. Ma a lungo termine la scomparsa dei ghiacciai sarebbe una grave minaccia per l’agricoltura», continua Palazzi. In particolare per coltivazioni come il mais e il riso, che richiedono un enorme consumo di acqua e sono ampiamente diffuse in Pianura Padana. «Poi c’è il rischio di scongelamento del permafrost, tipico delle alte latitudini ma presente anche sulle nostre montagne e che ha già provocato diversi crolli. E la formazione di laghetti glaciali con argini poco stabili, che potrebbero esondare facilmente con pericoli per le comunità a valle, e ancora la propagazione degli incendi nelle foreste che in Italia sono soprattutto montane.

 

Un capitolo a parte lo occupa la biodiversità, che è una caratteristica delle montagne, dove le specie si sono rifugiate in habitat peculiari, creando endemismi vulnerabili a cambiamenti climatici improvvisi. «Le specie, animali e vegetali, - puntualizza Palazzi - migrano verso quote più elevate, si creano nuovi incontri tra animali che non avevano mai condiviso le stesse nicchie ecologiche, e quelli che abitavano nei luoghi più estremi non hanno più dove andare. Poi ci sono problemi di sfasamento. Ne è un esempio la pernice bianca, che d’estate ha il corpo di colore grigio brunastro mentre d’inverno mostra una livrea candida, che le permette di sfuggire ai rapaci, i suoi predatori naturali. Adesso però in autunno diventa bianca, automaticamente, quando non c’è ancora neve, e diventa perfettamente visibile ai suoi nemici».

 

Ampliando ancora di più l’orizzonte, l’intera regione mediterranea è un sorvegliato speciale del cambiamento climatico. «Gli ultimi rapporti dell’Ipcc - ricorda Serena Giacomin - hanno focalizzato l’attenzione sul Mediterraneo, perché è un’area in cui le temperature sono cresciute più della media globale e perché i delicati equilibri della regione la espongono a maggiori rischi di scarsità idrica e desertificazione». Il secondo volume del Sesto Rapporto di valutazione dell’Ipcc, pubblicato a fine febbraio, definisce quattro categorie di rischio per l’Europa nei diversi scenari di riscaldamento, dalle ondate di calore alla vulnerabilità della produzione agricola, dalla maggiore frequenza e intensità di inondazioni alla scarsità di risorse idriche. Che appunto, nell’area mediterranea, potrebbe comportare un aumento dei giorni con disponibilità idrica inferiore alla domanda e un aumento dell’aridità del suolo, che potrebbero colpire la salute, il benessere e le attività di decine di milioni di persone.

 

La crisi idrica che stiamo attraversando quest’anno, dunque, è solo l’antipasto di quello che ci aspetta se le temperature dovessero superare i limiti di 1,5 o 2 gradi rispetto all’epoca preindustriale indicati dall’Ipcc. E la tragedia della Marmolada - che pur nella sua peculiarità non può essere disgiunta da quanto sta accadendo al clima - è un segnale di come dovremmo mettere in atto misure di adattamento e di prevenzione del rischio nuove e più severe. Oltre ad accelerare la riduzione della dipendenza dai combustibili fossili per contenere l’aumento della temperatura. Perché, piaccia o no, l’emergenza climatica è il problema più serio che la nostra civiltà abbia dovuto affrontare da quando scriviamo i libri di storia.

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