Hanno imbarcato dirigenti di partito seppure fuori dalle loro correnti, piazzato fedelissimi e aumentato in alcuni casi il ricorso agli esterni facendo fuori un pezzo di classe dirigente interna. I principali leader che rischiano di essere messi in discussione il giorno dopo il voto comunque hanno provato a blindarsi. Enrico Letta, il duo che bada a Silvio Berlusconi, Licia Ronzulli e Antonio Tajani (che non si sopportano a loro volta) e Matteo Salvini, tutti sanno di giocarsi la gran parte dei propri destini personali in queste elezioni, perché un pezzo di Partito democratico, di Forza Italia e di Lega è pronto ad armargli una guerra a tutto campo chiedendo la loro testa e anche in fretta.
Non a caso, sapendo bene dell’incertezza dell’elettorato e dei sondaggi, comunque hanno giocato in difesa: provando a costruire i futuri gruppi parlamentari dei rispettivi partiti a loro immagine e somiglianza, così da arginare eventuali lotte intestine e richieste di congressi per nominare nuove segreterie. Sembra che si siano messi d’accordo, ma da Letta alla Ronzulli, da Tajani a Salvini, tutti in fondo hanno adottato la stessa strategia che ha, come elemento chiave, quello delle candidature blindate.
LA STRATEGIA LETTA
Il dem Letta su questo fronte è stato uno dei più spregiudicati. Il giorno dopo il voto, comunque vada, sa bene che un pezzo del partito potrebbe chiedere la chiamata di un congresso e c’è chi già parla da candidato segretario: ogni riferimento al governatore della Emilia Romagna Stefano Bonaccini non è puramente casuale. Il segretario dei dem, quindi, non avendo una sua corrente forte ha cercato di prendere fior da fiore dalle varie altre aree blindando alcuni nomi e lasciando autonomia ai segretari regionali, in modo da legarli a sé. Così ha candidato un pezzo di apparato: segretari di grandi città, come quella di Milano, Silvia Roggiani, il segretario regionale della Lombardia Vinicio Peluffo, il segretario del Veneto Andrea Martella, la segretaria della Toscana Simona Bonafé, il responsabile dell’Abruzzo Michele Fina, il riferimento della Calabria Nicola Irto, il segretario della Sicilia Anthony Barbagallo. Ma in lista ci sono anche uomini vicini ai sindaci Pd più in vista, cioè fedelissimi di Roberto Gualtieri, Dario Nardella e Matteo Ricci.
Per essere chiari: Matteo Renzi, quando ha stilato le liste dei dem nel 2018, si è guardato bene dal lasciare spazio ai dirigenti locali, anzi ha provato a farli fuori quasi tutti. Letta ha fatto l’opposto: ad esempio ha lasciato spazio a scelte avallate da Barbagallo, come quella di candidare l’esterna Valentina Scialfa, stimata molto dal presidente del Coni Giovanni Malagò che nel 2018 le aveva suggerito di andare in Forza Italia, cosa che stava avvenendo salvo poi l’alzata di scudi di alcuni dirigenti forzisti come l’assessore regionale Marco Falcone. Adesso è capolista alla Camera nel collegio di Catania per i dem. Letta ha poi cercato di tenersi “amici” il governatore della Puglia Michele Emiliano, che ha candidato il suo capo di gabinetto Claudio Stefanazzi e il segretario regionale Marco Lacarra, e il governatore della Campania Vincenzo De Luca, che ha blindato la ricandidatura del figlio.
IL DUO RONZULLI-TAJANI ALLA PROVA
Sul fronte Forza Italia molti alti dirigenti messi alla porta, come Antonio Palmieri, Simone Baldelli e Renata Polverini, o fortemente ridimensionati nelle loro correnti, come Maurizio Gasparri, aspettano i risultati del voto per iniziare a chiedere a Silvio Berlusconi il passo indietro del duo Ronzulli-Tajani. Anche questi ultimi, pur non amandosi a vicenda, si sono spartiti un po’ di collegi sicuri per attorniarsi di fedelissimi: cosi Tajani ha lanciato il suo braccio destro Paolo Emilio Russo in Sicilia, la Ronzulli ha piazzato Stefania Craxi e la compagna del presidente-padrone forzista Marta Fascina, mentre anche uomini in orbita Mediaset come Giorgio Mulè sono stati più che garantiti. Basterà questa strategia?
IL CAPITANO TREMA
A proposito di test elettorali, anche il Capitano della Lega non dorme sonni tranquilli, lui che alle Europee del 2019 veleggiava intorno al 30 per cento. E per questo i tra leader è forse quello che rischia di più. La foto del giorno, quella da riprendere nel day-after delle elezioni, si sarebbe dovuta infatti scattare poco prima dell’intervento di Matteo Salvini sul palco di Pontida, nel dietro le quinte. Dopo quelli più apprezzati e applauditi di Massimiliano Fedriga, il governatore del Friuli-Venezia Giulia, del collega Luca Zaia, governatore del Veneto, e di Giancarlo Giorgetti. Dietro il palco Fedriga prende il Capitano e gli dà un abbraccio calorosissimo, di cui testimone più prossimo è Zaia che mima gioia. Segue una serie di baci di Giuda prima dell’intervento sui sei punti programmatici sui cui, Salvini invita tutta la Lega a impegnarsi: «Io ci credo e ci metto la firma», dice, su stop bollette e nucleare sicuro; autonomia regionale; flat tax al 15 per cento e pace fiscale; stop Fornero, sì Quota 41; stop sbarchi, sì decreti Salvini; giustizia giusta.
È una recita, un copione a favore di telecamere per smentire l’operazione-sganciamento-Salvini che da tempo agita il popolo verde e arriva ai vertici. «Ne riparleremo il 26 settembre», dicono a mezza bocca, quasi tutti. «Il giorno dopo le elezioni se sarà certificato il raddoppio di Fratelli d’Italia sulla Lega, arriverà il momento di convocare il congresso. E di rimettere a posto pesi, contrappesi, identità e anima. E certo il segretario», spiega a L’Espresso un dirigente, fedele anche nell’outfit al verde Lega Nord e non a un più diffuso azzurro salviniano. «I voti erano qui e non altrove. Li abbiamo regalati».
E non basta la smentita di Fedriga poco convinta, essendo lui in primis l’anti-Salvini più papabile: «Noi siamo un movimento che può ragionare come forse è abituato qualcuno a Roma, dove ci sono le soglie per far fuori uno o l'altro. Ricordo che in alcune Pontida la Lega aveva il 4 per cento».
Non basta aver blindato l'intera squadra che ha rappresentato il partito al governo uscente. Ministri, viceministri, sottosegretari: Giancarlo Giorgetti, Massimo Garavaglia e Erika Stefani, il viceministro Alessandro Morelli, i sottosegretari Lucia Borgonzoni, Gian Marco Centinaio, Federico Freni, Vannia Gava, Nicola Molteni, Tiziana Nisini, Stefania Pucciarelli, Rossano Sasso. I capigruppo Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo e i vicesegretari Andrea Crippa e Lorenzo Fontana.
In Parlamento per i prossimi cinque anni ci saranno gli uomini della ciurma del capitano, fanno notare. Ma non basta e non serve: «Siamo fedeli al Carroccio non al leader».
Vince la lealtà, sulla fedeltà, fanno intendere. Insomma, una volta entrati in quei palazzi tutto può cambiare e anche velocemente perché la soglia di sbarramento di queste elezioni è psicologica e vincere perdendo a vantaggio dell’alleato Fratelli d’Italia è il punto di rottura, il via liberi tutti che farà partire la valanga dove ognuno di loro, i sommersi e i salvati alle urne, potrà dire quello che pensa del Capitano. Qualcuno si è portato avanti, come Cristian Invernizzi, deputato bergamasco uscente, ricandidato in posizione complicatissima ha più volte sottolineato: «Un congresso lo faremo». Altri restano più cauti ma per questioni tecniche.
Solo Matteo Salvini e il consiglio federale possono convocare il Congresso. Al federale troviamo i vicesegretari Crippa, Giorgetti, Fontana, oltre ai segretari regionali che sono stati tutti nominati da Salvini, così come nominati sono i commissari e coordinatori regionali che gli hanno permesso di controllare direttamente un partito che è strutturalmente organizzato come una federazione. A quattro anni dalla sua nascita e a due dal commissariamento della Lega Nord, le regole interne restano nebulose. Proprio per questo da quel che resta della Lega Nord illustrano un obiettivo (non nuovo) - rompere il dominio salviniano uscendo allo scoperto. Un nome bene in vista (le ipotesi girano intorno a Zaia e Fedriga) che si alza in piedi, come accadde con Roberto Maroni, e dice: «Io ci sono. Contiamoci». Lo esclude Gianni Fava, che è stato l’ultimo sfidante di Salvini per la segreteria della Lega Nord, non iscritto alla Lega Salvini Premier: «Io ho una buona opinione di Fedriga però non credo che sia in grado di insidiare Salvini all’interno di quel partito che, ormai, ripeto, è un partito personale. O fanno una cosa nuova oppure non è possibile una scalata dentro il suo partito. È fantasia pure. Non c’è un organismo dirigente elettivo, sono tutte persone nominate da Salvini».
C’è da camminare lungo il crinale sottile che separa i malumori ormai plateali della base della Lega dai malumori dei vertici. Bisogna essere pazienti, dicono. L'importante è rispettare i tempi teatrali: perdita, pausa, lacrima, ringraziamenti, inchino, grazie di tutto, adieu. Forse.