25 settembre
Federico Aldrovandi, ucciso dall’abuso di Stato. Ma la legge contro la tortura è ancora parziale
Patrizia Moretti: «Si sono perse molte occasioni per evitare che tragedie di questo tipo possano ripetersi. In questi diciassette anni si sono avvicendati tutti i colori politici e purtroppo non è cambiato granché»
Cinquantaquattro lesioni, due manganelli rotti e un cuore schiacciato. La domenica mattina del 25 settembre 2005 Federico Aldrovandi, un ragazzo di soli diciotto anni, moriva a Ferrara durante un controllo di polizia. L’iter processuale di questa vicenda è terminato dieci anni fa, il 21 giugno 2012, con la condanna in via definitiva degli agenti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri. Nella requisitoria davanti alla quarta sezione penale della Cassazione, il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta, riferendosi agli imputati, parlò di «schegge impazzite». I quattro furono riconosciuti colpevoli di eccesso colposo in omicidio colposo, con una pena detentiva di 3 anni e 6 mesi, poi ridotta a 6 mesi per via dell’indulto. Nessuno sconto invece per i familiari di Federico – il padre Lino, il fratello Stefano e la madre Patrizia Moretti – obbligati a convivere da diciassette anni con il dolore di una morte insensata. Una sofferenza acuita dal ritorno in servizio nel gennaio del 2014 di tre dei quattro agenti, con uno solo rimasto a casa per curare una «nevrosi reattiva». Scelta, quella di non togliere la divisa ai responsabili dell’omicidio di Federico, contestata duramente dalla famiglia Aldrovandi. Ma quest’episodio è tutt’altro che isolato.
In Italia quando si parla di abusi in divisa bisogna fare i conti con «un elenco lunghissimo di persone che sono morte nelle mani o in custodia di forze di polizia», dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Se conosciamo i nomi di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Gabriele Sandri, Riccardo Magherini e Giuseppe Uva, il merito è innanzitutto delle estenuanti battaglie giudiziarie e mediatiche affrontate dai loro familiari. «È importante infatti sottolineare come le famiglie delle vittime siano state costrette a mettersi in gioco perché se non lo avessero fatto la verità e la giustizia non sarebbero mai arrivate. E a volte non sono arrivate comunque», ricorda Noury.
In Italia un punto di riferimento per i familiari di chi non c’è più e le vittime sopravvissute è l’Associazione contro gli abusi in divisa (Acad), realtà che da anni si occupa dei soprusi commessi dalle forze dell’ordine, offrendo supporto legale e svolgendo controinformazione. Una delle campagne più conosciute dell’associazione riguarda proprio Federico Aldrovandi (#FedericoOvunque) ed è la risposta ai fatti del 1° dicembre 2017 quando, in occasione della partita tra Roma e Spal, ai tifosi ferraresi venne negata la possibilità di portare dentro lo stadio Olimpico una bandiera con il suo volto: «Questa cosa non è accaduta solo a Roma. Episodi analoghi si sono verificati a Genova, Napoli e hanno coinvolto i sostenitori della Spal e di molte altre squadre», precisa Daniele Vecchi, giornalista e autore di “Federico Ovunque” (Red Star Press, 2020).
Nei mesi successivi a Roma-Spal molte tifoserie sono state denunciate o multate per aver introdotto negli stadi l’immagine di Federico, un «contenuto provocatorio nei confronti delle forze dell’ordine», come si legge nel comunicato di un giudice sportivo. Il movimento ultras, spesso descritto in maniera superficiale, ha preso subito a cuore la storia di Federico, come spiega Lino Aldrovandi: «Quel 25 settembre 2005, nel pomeriggio, allo stadio Paolo Mazza di Ferrara c’era l’incontro Spal- Ancona e qualcuno in seguito mi disse che all’interno, nella Curva Ovest (il tifo organizzato della Spal, ndr), non si faceva altro che parlare di quello che era successo la mattina in via Ippodromo. Nelle domeniche successive senza che li avessi mai contattati, ovunque andassero, cominciarono a chiedere verità e giustizia».
Per Aldrovandi le magliette e gli striscioni dedicati al figlio rappresentano «gesti puliti, semplici e rispettosi, che non inneggiano alla morte e a cui dovrebbero per assurdo unirsi anche gli stessi poliziotti, per un percorso di maturità che non si riesce ancora a intravedere». Gesti che di provocatorio hanno ben poco, soprattutto se paragonati a iniziative che hanno scosso l’opinione pubblica come il lungo applauso al congresso nazionale di un sindacato di polizia per gli agenti condannati per l’uccisione di Federico o il sit-in, sempre a favore dei quattro, organizzato da un’altra associazione di categoria sotto il luogo di lavoro di Patrizia Moretti.
La madre di Federico, oggi come sette anni fa quando decise di ritirare le querele contro chi offese lei e suo figlio, non vuole più saperne di queste persone. «Rispetto a diciassette anni fa vedo che tanti occhi si sono aperti, ma c’è chi continua a incolpare Federico», segnala Moretti. «Sto pensando ai vari politici che prendevano posizione su casi come il mio, accusando le vittime di essere responsabili in qualche modo della loro morte. Non so se prendano certe posizioni per crearsi un personaggio o perché ci credono veramente, ma resta il fatto che quel tipo di atteggiamento non cambia neanche di fronte all’evidenza schiacciante. Per questo non voglio più parlare e mi sono sottratta al confronto con questa gente che voleva litigare con me. È tempo perso e serve solo a loro per farsi vedere, però lo fanno sulla pelle di mio figlio».
Secondo Noury il dibattito sulla condotta di chi ha il compito di tutelare la sicurezza della collettività deve tenere in considerazione alcuni fattori. «Abbiamo atteso 29 anni prima di avere nel 2017 una legge contro la tortura e stiamo ancora aspettando che vengano introdotti i codici identificativi per le forze di polizia in servizio di ordine pubblico. Siamo rimasti uno degli ultimi quattro Stati dell’Unione Europea a non averli. Quando le leggi non ci sono, questo produce comportamenti che possono violare i diritti umani. Va segnalato inoltre il fatto che per anni, in alcuni casi, si sia depistato e insabbiato, alimentando un clima di impunità».
Nel manifesto in dieci punti che Amnesty International Italia ha presentato ai leader e alle leader che competeranno alle prossime elezioni uno dei punti riguarda l’adeguamento dell’operato delle forze di polizia gli standard internazionali, dal rispetto delle norme sull’uso della forza alla cosiddetta «accountability», cioè rendere conto pubblicamente delle proprie azioni in maniera aperta e trasparente. Su questi temi per il portavoce di Amnesty non si torna indietro eppure, constata, «vediamo che ci sono programmi elettorali in cui ad esempio si vuole rimettere mano a una legge sulla tortura che già è tutto meno che perfetta». Patrizia Moretti, commentando su Twitter le recenti condanne per i depistaggi nel caso di Stefano Cucchi, ha affermato che in molti casi non è stata nemmeno sfiorata una “pienezza” di giustizia. «No, nel mio caso assolutamente no», ribadisce: «Perché comunque c’era una chiusura a riccio di molte persone che si trovavano in posizioni di potere». Alla domanda sul processo bis per i depistaggi e le omissioni sull’omicidio di Federico, conclusosi con la condanna in Cassazione di un solo poliziotto sui quattro coinvolti, Lino Aldrovandi risponde con un laconico «lasciamo perdere».
Le travagliate vicende giudiziarie e un’instancabile ricerca di giustizia hanno avvicinato le famiglie Aldrovandi e Cucchi. «Ilaria è molto simile a Patrizia, nel carattere e nella forza, specialmente nel non arrendersi alle ingiustizie», dice Lino. «In un certo senso si sono date sostegno. Federico e Stefano in loro hanno trovato una mamma e una sorella immense, anche se non avrebbero voluto esserlo». Tra le persone che hanno aiutato la famiglia Aldrovandi va citata Anne Marie Tsagueu, una donna originaria del Camerun con il permesso di soggiorno in scadenza che trovò la forza di fare la cosa giusta. «Diverse persone dicevano di aver visto o sentito qualcosa quella mattina, ma nel momento in cui si chiedeva loro di rendere una testimonianza ufficiale si tiravano indietro», ricorda Patrizia Moretti. «Anne Marie Tsagueu, dopo aver parlato con il suo prete e un avvocato, è andata avanti in maniera decisa e io non ho visto nessun italiano che abita in quella zona comportarsi allo stesso modo. E pensare che mi ha chiesto anche scusa molte volte dicendo “se fossi intervenuta forse avrei potuto salvare Federico”, ma non poteva immaginare che l’esito di quel pestaggio sarebbe stato così drammatico. Era veramente terrorizzata e per questo motivo la sua testimonianza è stata molto importante. Nessuno ha avuto il coraggio della signora Anne Marie».
Quest’anno l’anniversario della morte di Federico Aldrovandi coinciderà con le elezioni politiche. «Credo che si siano perse molte occasioni per evitare che tragedie di questo tipo possano ripetersi, a partire da una legge sulla tortura parziale e insufficiente», spiega Patrizia Moretti. «Non so che cosa sperare per il futuro, visto che in questi diciassette anni si sono avvicendati tutti i colori politici e purtroppo non è cambiato granché. Alla fine, il vero senso di giustizia che sentiamo e ci consola arriva dalla vicinanza delle persone che spesso sono migliori delle istituzioni che dovrebbero rappresentarle».