L’indagine
Il mistero dei pizzini spariti di Matteo Messina Denaro
Erano custoditi su un minipc e non si trovano dal 2015. Nei file scomparsi anche numeri di telefono e verbali
La scomparsa dei file su Matteo Messina Denaro dà una nuova scossa ai veleni dell’antimafia siciliana. Si tratta dei testi sacri sulla caccia all’ultimo latitante, custoditi in un minipc da 10 pollici e due pendrive, ed evaporati nel 2015 dall’ufficio della Procura di Palermo, utilizzato dal magistrato Teresa Principato che in quegli anni coordinava la caccia e dal finanziere Carlo Pulici, suo stretto collaboratore. Tra questi, due documenti excel, con una sfilza di numeri telefonici incasellati con nomi, date e tipologia di intercettazioni: quelle cessate e quelle all’epoca ancora in corso. Ma anche un dossier con tutti i pizzini sequestrati. Come quelli che vedete in queste pagine trovati il 26 ottobre 1996 a due picciotti di Campobello di Mazara. Lettere simili a rapporti di intelligence su una soffiata, un passaporto falso per il Venezuela, nuove falle nella cosca apprese dalla moglie di un poliziotto «da noi c’è un altro pentito». La scomparsa dei dispositivi ha interrogato anche la commissione Antimafia, che allo scadere dell’ultima legislatura, ha ascoltato Pulici in seduta segreta.
Ma l’episodio è tuttora insoluto, nonostante due inchieste della magistratura. Una prima indagine a modello 45 «priva di notizia di reato», è stata archiviata dalla Procura di Palermo. Adesso anche il secondo fascicolo, avviato a Caltanissetta, su esposto dell’avvocato Antonio Ingroia (ex pm della Dda di Palermo) è stato archiviato. Anzi, secondo il gip nisseno, da una lettura complessiva «emerge l’infondatezza della notizia criminis». Inoltre, «non si è in grado di stabilire se il materiale informatico non più trovato, fosse all’interno degli uffici della Procura di Palermo o altrove». Considerazioni che finiscono per rovesciare il mistero, sollevando ombre proprio sull’uomo che ha denunciato la scomparsa dei dispositivi. E che si è già trovato, suo malgrado, al centro del ciclone giudiziario e mediatico nato dalle intercettazioni all’hotel Champagne attraverso il trojan installato nel telefonino di Luca Palamara che hanno colpito un ignaro Marcello Viola, bloccato nella corsa a capo della Procura di Roma e di rimbalzo la pm Teresa Principato, con il risultato di azzerare il lavoro investigativo svolto sul superlatitante.
Pulici ha potuto lavorare nell’ufficio di Principato fino all’estate 2015, quando fu allontanato con un provvedimento del procuratore Francesco Lo Voi, per il «venir meno del rapporto fiduciario». Era stato denunciato dalla moglie di un collega e indagato per «molestie telefoniche»: l’indagine venne archiviata, ma soltanto nel 2018. Ciò nonostante, l’appuntato continuò a lavorare con la pm, fuori dalla Procura. A tre mesi dall’allontanamento dall’ufficio, il 10 dicembre 2015, chiese ai vertici locali della Finanza di poter recuperare i suoi oggetti dall’ufficio del pm Antimafia. Ottenendo risposta positiva in pochi giorni. Ma del minipc, utilizzato anche per la verbalizzazione dei colloqui con testimoni e collaboratori di giustizia, nessuna traccia: soltanto una scatola vuota nella libreria.
Durante l’accesso con due funzionari della Procura, inoltre, emerse che «dal portapenne era stato asportato un mazzo di chiavi legate con un anello metallico al quale erano ancorate anche le pendrive nelle quali erano riversati i file dal computer della dottoressa». Una parte dei medesimi backup, conservata in altri hardisk, è stata ritrovata dai militari della Finanza, nel corso delle perquisizioni al collega del maggio 2016. Nei verbali c’è un massiccio elenco di dispositivi, ma tra questi, nessun minipc da 10 pollici. «La mia fiducia nei suoi confronti era totale. Non vi erano documenti che consideravo troppo riservati per condividerli con Pulici», ha chiarito Teresa Principato, tagliando corto sulla integrità del finanziere. Sulla sparizione dei file resta però il mistero.