Siamo in decrescita demografica. Non è una notizia. Lo siamo dalla fine degli anni Settanta. L’Italia è il Paese meno fecondo e più anziano d’Europa, in cui gli under 15 sono meno degli over 65. Tutto questo ha portato l’Istat a prevedere una riduzione di 7 milioni di residenti entro il 2050. Dal 2008 ad oggi le nascite sono diminuite del 30,6 per cento. Il numero di donne italiane tra i 15 e i 49 anni (la fascia di età considerata fertile) è in diminuzione costante: se le baby-boomer, nate tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà degli Ottanta, sono uscite dalla fase riproduttiva, le generazioni più giovani pagano il «baby-bust», cioè la fase di forte calo della fecondità del ventennio tra il 1976 e il 1995, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995.
Questo effetto era stato attenuato, a partire dagli anni Duemila, dall’immigrazione, che aveva incrementato il numero di giovani. Oggi invecchia anche la popolazione straniera residente. Inoltre, all’inizio del millennio, il calo della natalità riguardava soprattutto i figli successivi al primo, adesso i dati dimostrano che le coppie più giovani hanno difficoltà anche a formare una nuova famiglia.
Il perché non è un mistero. Basta mettersi in ascolto delle nuove generazioni: non si fanno figli prima di tutto perché non si ha un lavoro per mantenerli e una casa per metterceli, perché si è precari. La madre è sempre certa ma il futuro è oscuro. Una tempesta perfetta quasi impossibile da impedire, si può solo accogliere come spiega a L’Espresso Corrado Bonifazi, demografo dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche: «Le ragioni dell’attuale calo delle nascite risiedono negli ultimi 45 anni di storia demografica del Paese, visto che dal 1977 il tasso di fecondità totale è sceso al di sotto del livello di sostituzione di 2,1 figli per donna. Non solo, per lunghi periodi abbiamo avuto livelli di fecondità tra i più bassi in Europa, con valori al di sotto degli 1,3 figli per donna che nella letteratura scientifica è considerata la soglia della lowest low fertility. Una categoria nella quale siamo rientrati dal 2018.
A questa situazione si è aggiunta una cospicua diminuzione delle donne in età feconda (15-49 anni), passate dai 13,8 milioni del 2010 ai 12,1 milioni del 2022 per effetto della bassa fecondità degli anni scorsi. Si è innescata quindi quella tempesta perfetta che mette insieme bassi livelli di fecondità e riduzione delle donne in età riproduttiva che da alcuni anni caratterizza il nostro Paese. Una situazione che rischia di continuare anche nei prossimi anni, visto che il calo delle donne tra i 15 e i 49 anni non dovrebbe arrestarsi prima del 2050 quando dovrebbe scendere al di sotto dei 10 milioni».
Da Paesi europei virtuosi come la Francia e la Svezia che tentano di invertire con qualche successo il fenomeno, ci differenziamo nella esiguità delle risorse destinate alle politiche familiari, senza contare, ricorda Bonifazi, «le crisi economiche del 2008 e del 2011 che hanno pesantemente colpito la situazione dei giovani, e più recentemente la pandemia e la guerra in Ucraina».
La notizia, oggi, è che la politica italiana sembra aver aperto gli occhi sul fenomeno. La questione si è fatta spazio nei programmi elettorali prima, nel governo in carica adesso. Fratelli d’Italia si muove attraverso simboli e azioni per fermare l’inverno demografico. Basti pensare all’istituzione di un ministero per la Natalità guidato da Eugenia Roccella, antiabortista e portavoce del Family Day nel 2007. Ma non basta: «Un Paese dovrebbe fare il contrario di ciò che fa adesso», spiega la sociologa Chiara Saraceno, esperta di cambiamento sociale e sviluppo demografico, «sostenere l’occupazione femminile, dare un orizzonte minimo di sicurezza a uomini e donne, ribilanciare la divisione di lavoro nelle cure in famiglia. Questo governo punta molto su questo tema facendo scelte sbagliate. Si aumenta l’assegno unico per chi ha più di tre figli. Ma bisognerebbe aumentarlo per chi ne fa già uno, il secondo è raro e se ti rivolgi addirittura a chi fa tre figli è chiaro che fai un atto simbolico. Una politica ferma agli anni Cinquanta. Stanno sbagliando tutto».
Sventolare qualche bonus sotto il naso delle giovani coppie, dunque, non le convincerà a fare figli. «Se uno sa che non è da solo nel crescere i propri figli, che c’è una società attorno che investe in questi figli si sente incoraggiato», chiarisce Saraceno.
Non servono neanche le politiche anti-scelta e le agevolazioni fiscali adottate dal governo di Viktor Orbàn in Ungheria, stella polare del ministro Salvini e di tutto il governo per le misure “lungimiranti” in tema di natalità. Per capire gli effetti di queste politiche sul Paese magiaro basta leggere i dati Eurostat più aggiornati, tra il 2019 e il 2021 la popolazione ungherese ha continuato a calare, mentre in molti Paesi dell’Unione europea è cresciuta. Ispirandosi, invece, a Paesi come, Francia e Svezia, l’Italia potrebbe pensare a garantire l’accesso gratuito agli asili nido, ad aumentare l’assegno unico e universale per i figli introdotto nel 2021 e ad allungare e pagare di più i congedi parentali. «In questi Paesi», ricorda Saraceno, «hanno congedi ben pagati sia uomini che donne. Serve favorire la responsabilità di cura e l’occupazione remunerata, anche con la flessibilità amichevole sul lavoro. Passare all’idea che quello che conta non è il tempo ma la produzione e che questa si può gestire secondo i propri bisogni». E poi i servizi per l’infanzia. «Non sono solo strumenti di famiglia o conciliazione con il lavoro, devono essere pensati come opportunità educative per i bambini, di crescita. Si pensa a bonus bebè, baby-sitter ma un figlio ha questa caratteristica: tende a rimanere a lungo. I figli costano di più man mano che crescono. Inoltre, non abbiamo raggiunto il 36 per cento di copertura dei nidi. Ci sono aree del Paese che fino a dieci anni fa erano a più alta fecondità, sono oggi a più bassa fecondità. Nel Mezzogiorno è più bassa del Centro Nord, del resto con l’occupazione difficile e servizi inesistenti, questi giovani toccano l’unica cosa su cui hanno un controllo: i figli».
La Francia ha politiche di sostegno della genitorialità e non solo della natalità. Non agevolano solo le nascite, ma sostengono la scelta di fare figli nel lungo periodo. La legge francese prevede la possibilità per uno dei genitori di lavorare a tempo parziale nei primi anni di vita dei figli. La durata varia a seconda dei figli. La Svezia si caratterizza per semplici misure universalistiche, cioè rivolte a tutta la popolazione. L’unica condizione prevista per poter richiedere il sostegno economico riguarda solitamente l’età del figlio a carico. Il congedo parentale svedese è tra i più generosi al mondo: 480 giorni complessivi a disposizione dei due genitori, di cui 390 retribuiti all’80 per cento dello stipendio medio incassato negli otto mesi precedenti la richiesta. Il futuro di un Paese senza figli lo illustra in sintesi Bonifazi: «Si continuerà a percorrere la strada dell’invecchiamento, con inevitabili e rilevanti aumenti della spesa pensionistica e sanitaria a cui una quota sempre più ridotta di persone in età lavorativa dovranno rispondere».
Bisognerebbe guardare alla realtà: insieme alla denatalità un’altra questione è il mondo che ci si stringe addosso. Milioni di persone arrivano nella vecchia Europa che sembra produrre soprattutto vecchiaia e anziché accoglierle le respingiamo. «Lamentarsi perché non nascono bambini è molto miope», conclude Saraceno, «considerando che non facciamo molto per i bambini che ci sono o per i giovani che ci sono. Il Mezzogiorno è un caso drammatico. A che serve un Paese in cui le giovani generazioni se ne vanno e nessuno viene? In cui quelli che vengono, li respingiamo perché non sono quelli che vorremmo? Forse, fossero tedeschi ce li prenderemmo volentieri»