Lo scopo è far emergere redditi finora sconosciuti al Fisco. Ma il settore delle valute virtuali deve essere regolamentato per evitare le truffe, ancora troppo frequenti

Assenti per anni dai radar fiscali, ora a essere condonati saranno anche i redditi delle cripto-attività. È l’ultima legge di Bilancio a stabilirlo e la notizia, per quanto bizzarra, suona come un rullo di tamburi nella no man’s land della nuova era economica dominata dal bitcoin e dalle sue tante sorelle virtuali. Peccato che la pretesa sia di sanzionare il mancato rispetto di adempimenti – a cominciare dall’obbligo di dichiarare le criptovalute – che nessuno, in passato, aveva ancora disciplinato. Sarà l’Agenzia delle Entrate a governare l’emersione: la scadenza per sanare la detenzione e le eventuali plusvalenze maturate entro il 2021 è stata fissata nel prossimo 30 novembre. Se e quanto funzionerà, date le premesse, è difficile da prevedere. Certo è che il provvedimento rappresenta un ulteriore passo verso la regolamentazione di un settore per molti versi ancora nel limbo di una zona grigia che alimenta confusione e diffidenze.

 

Prova ne sia lo sboom dei mesi scorsi. Da una parte, il crollo di Ftx, la quarta piattaforma al mondo per il trading di criptovalute, che, mandando in fumo decine di miliardi di moneta sonante, ha fatto tremare l’intero mercato, per sua stessa natura soggetto a volatilità estrema. Dall’altra, i non meno inquietanti segnali dal fronte giudiziario, con le inchieste che, da un capo all’altro del pianeta, sembrano accomunate dall’incondizionata fiducia degli investitori nella generale promessa di facili rendimenti. Se lo schianto dell’impero da 32 miliardi di dollari costruito da Sam Bankman-Fried pare avere spezzato l’incantesimo, a mostrare le prime crepe del sistema, qualche mese prima, era stato il crac di New Financial Technology, un’altra fabbrica dei sogni fondata da due veneti esperti di informatica e da un avvocato salernitano a Silea, provincia di Treviso, ma con sede a Londra e diramazioni a Dubai. A monte del successo, un misterioso software di arbitraggio capace di moltiplicare i profitti del 10% ogni mese, a fronte di un capitale d’accesso di 10 mila euro. Una sorta di speculazione online, insomma: compro dove mi costa meno e vendo dove mi pagano di più. E così in effetti parve funzionare, visti i rendimenti che Nft puntualmente garantiva. Finché il meccanismo, fallito anche il lancio di un "token" che dai 72 centesimi di dollaro iniziali precipitò in breve a valori prossimi a un centesimo, non si è inceppato. È stata la Guardia di finanza di Pordenone, con il colonnello Davide Cardia, a ipotizzare che a sorreggerne le fortune e determinarne poi il tonfo – decine di milioni di euro rastrellati dalle tasche di almeno 6 mila persone – sia stato l’assai più classico schema Ponzi: quello che consente di versare gli interessi ai primi clienti con i soldi via via incassati dagli ultimi. E che collassa nel momento in cui le richieste di rimborso superano l’ammontare di depositi ed entrate. L’indagine, tra le prime in Italia a puntare i fari sulla cripto-industria, contesta truffa e abusivismo finanziario in un contesto di associazione per delinquere. Accuse che spetterà alla Procura di Treviso, cui gli atti sono stati trasmessi per competenza territoriale, accertare.

 

«Spesso, le organizzazioni controllano i risparmiatori attraverso la registrazione a un sito e ne comandano direttamente le finanze introducendo software nei loro computer», spiega l’allora procuratore di Pordenone, ora a capo dei pm di Verona, Raffaele Tito, insistendo sull’importanza della collaborazione investigativa internazionale. «Tuttavia, il recupero delle somme – aggiunge – è praticamente impossibile, a meno che il reinvestimento non avvenga in Italia e non si possa procedere con la confisca per autoriciclaggio».

 

Quanto basta per bocciare l’ecosistema digitale? Assolutamente no, se al Far West si sostituirà «un sistema di regole che prevenga frodi e sponde a fenomeni illegali, inclusa l’evasione fiscale», afferma Alberto Barbagallo, commercialista e ceo di Instant Advisory, società specializzata nella consulenza fiscale e gestionale del business online. Tutele, quindi, ma anche educazione e formazione. «In gioco ci sono investimenti e quote di risparmio importanti - ricorda -, compresi quelli di un’imprenditoria giovanile a sua volta protagonista dello sviluppo di nuove attività di guadagno attraverso il metaverso. Gaming e play to earn, per esempio. La blockchain offre un’enormità di prodotti e servizi e le criptovalute possono essere uno strumento di gestione di incassi e pagamenti rapido ed economico anche a livello corporate – continua – noi stessi accettiamo i bitcoin, che convertiamo rapidamente per evitare variazione del cambio, e assistiamo aziende che, operando in criptovalute, riducono i costi transazionali». Senza un’autorità di controllo, tuttavia, i rischi continueranno a pesare più dei vantaggi. «Persino a Dubai il governo ha creato la Vara (Virtual Assets Authority Regulatory), per disciplinare marketing e promozione delle risorse virtuali».

 

Le recenti bancarotte, del resto, hanno accelerato l’introduzione di contromisure. «La Securities and Exchange Commission statunitense sta conducendo un’autentica battaglia contro emittenti e piattaforme, per ricondurre ogni token diverso dal bitcoin all’applicazione delle regole – spiega – in Europa, dal 9 giugno 2023 è in vigore Micar (Market in Crypto-Assets Regulation) che prevede elementi stringenti in materia di emissione, detenzione e scambio di valute virtuali». Quanto all’Italia, una prima raddrizzata fiscale è arrivata con la legge 197 del 2022, che ha definito le criptovalute «rappresentazione digitale di valore o di diritti che possono essere trasferiti e memorizzati elettronicamente, con tecnologia di registro distribuito o tecnologia analoga». «Inquadrate tra i cosiddetti redditi diversi – conclude Barbagallo – sono soggette a una tassazione del 26% sulle plusvalenze maturate superiori a 2 mila euro». Con tanto di paracadute per (ignari) inadempienti.