Diritti negati
Afghanistan, la resistenza delle donne: «L'istruzione è la nostra unica arma per cacciare i talebani»
Parla la fondatrice di una rete di scuole clandestine nel Paese che sta portando avanti una sistematica persecuzione di genere. «Non possiamo più fare niente, siamo escluse dalla vita sociale. Per questo rischiamo la vita pur di imparare»
«Sapevo che sarebbe andata così. Quando nell’estate del 2021 i talebani sono entrati a Kabul - mentre gli americani completavano il disordinato ritro delle truppe e migliaia di persone cercavano disperatamente di lasciare l’Afghanistan- hanno usato proprio le stesse parole che avevano già detto nel 1996: che avrebbero reso il Paese sicuro seguendo i dettami della Sharia. E che le donne avrebbero potuto frequentare scuole e università», ricorda Parasto Hakim, con la voce che ancora trema. E l’emozione che ogni tanto le fa mancare il respiro necessario a mantenere un tono stabile.
«“Mentono”, dicevo tra me e me». E così è stato. Oggi in Afghanistan le donne non possono fare più niente. Non possono frequentare la scuola se hanno più di 12 anni. Non possono lavorare, non possono andare al parco, non possono percorrere più di 72 chilometri se non sono accompagnate da un uomo. Non possono uscire se non indossano l’hijab in “modo adeguato”. Non possono prendere un aereo. Non possono andare al centro estetico. Un progressivo, inarrestabile, deterioramento dei diritti di oltre 20 milioni di cittadine, la metà della popolazione totale del Paese. La maggior parte minori, visto che l’età media è di 17 anni.
È una vera e propria persecuzione di genere quella che i talebani stanno portando avanti nei confronti delle donne, una discriminazione sistematica, sessuale, economica e sociale in continuo peggioramento. Per proteggere le donne vittime di violenza le imprigionano, svela un recente rapporto delle Nazioni Unite. Perché la detenzione è la migliore forma di protezione per chi ha subito abusi, secondo i talebani.
«Si tratta di gender apartheid», ripete tante volte Hakim, delusa dall’occidente che ha abbandonato il popolo afghano in balia di persone a cui «nessun americano o europeo lascerebbe mai i propri figli. Perché noi dovremmo farlo?», si chiede. «Con i talebani non si può parlare. Non conoscono il dialogo. Per farsi ascoltare usano armi, tortura e morte». Hakim, che sceglie di far conoscere il suo vero nome nonostante le conseguenze a cui questo potrebbe portare, è tra le fondatrici di Srak, un network di scuole clandestine: «14 fino ad ora. Per permettere a più di 900 ragazze di accedere al sistema di istruzione. E a chi avrebbe voluto frequentare l’università di seguire i corsi online, di nascosto. Insegniamo anche attività pratiche, come cucire, tessere tappeti. Affinché le ragazze possano costruirsi la propria indipendenza e sfuggire ai matrimoni forzati».
Le scuole segrete sono stanze nascoste. In cui, strette l’una accanto all’altra, le alunne si siedono a terra e rischiano la vita pur di imparare. Tra queste ci sono anche donne adulte che avevano lasciato la scuola nel’96, quando i talebani hanno governato il Paese la prima volta. Stanche delle giornate vuote, di trascorrere il tempo senza far nulla. Dell’aver perso ogni speranza nella costruzione di un futuro migliore tanto che, dimostrano gli studi, il numero dei suicidi e di chi soffre di depressione è cresciuto molto tra le adolescenti da quando il divieto di frequentare la scuola è attivo, settembre 2021.
Ancora più grande è il pericolo che vivono le insegnanti: «Se ci scoprono ci mettono i prigione o ci riempiono di botte. Ma non possiamo smettere. L’educazione è l’unica arma che abbiamo per contrastare il regime talebano, sperare che la realtà nel nostro Paese cambi. La conoscenza è l’unico strumento che abbiamo per comunicare con chi verrà dopo di noi. Se mai dovesse succedere di nuovo quello che sta succedendo oggi, le prossime generazioni devono sapere quanto stiamo facendo e dalla nostra esperienza trovare la forza per portare avanti la loro resistenza. Ecco perché anche se è rischioso voglio dire il mio vero nome», sottolinea Hakim.
Che non si rassegna. Vuole che dell’Afghanistan si parli. Delle condizioni in cui sono costrette a sopravvivere le donne. Del coraggio che ha chi si ribella. Della crisi sociale e umanitaria che devasta il Paese: «Sono trenta milioni le persone che necessitano assistenza, su 40 milioni abitanti. Manca il cibo. Già prima dell’agosto 2021 anni di siccità avevano devastato l’agricoltura. Le banche non hanno liquidità. L’area di Herat, nell’ovest, è stata colpita da tre terremoti solo quest'anno», spiega Stefania Piccinelli, responsabile dei programmi internazionali dell’ong WeWorld che ha ricominciato a operare nel Paese subito dopo il ritorno dei talebani.
«Diamo supporto alle donne capofamiglia. Sole che con figli a carico in un paese che non le considera. Sono più di due milioni. Vorremmo contribuire alla loro formazione, insegnare loro un mestiere. Ma non possiamo farlo visto le restrizioni del governo. Così diamo loro un contributo mensile da spendere come ritengono opportuno. Vediamo che la somma più grande viene utilizzata per comprare da mangiare, al secondo posto c’è la spesa per l’istruzione dei figli», racconta Piccinelli sulla base dei dati che WeWorld ha raccolto.
«Non possiamo lavorare direttamente nell'educazione soprattutto se vogliamo mantenere un approccio di genere. Ma cerchiamo di supportare le organizzazioni locali che operano per garantire l’accesso all’istruzione di tutti. Come fa Hakim. E di mantenere alta l’attenzione della comunità internazionale affinché non dimentichi che la possibilità di andare a scuola dovrebbe essere garantita anche nei territori in cui ci sono conflitti o crisi, perché accedere all’istruzione è un diritto umano che non ammette limitazioni. Necessario per la costruzione della pace».