Opere e soldi
«Noi, i futuri espropriati dal Ponte di Messina. Questo mostro inutile non lo vogliamo»
I residenti e commercianti delle zone dove dovrebbe sorgere il cantiere sono l'ala più dura dei No Ponte. «Lo vogliono quelli che pensano che siamo in America e non vogliono vedere le eterne incompiute di questa città e della Sicilia»
La loro opposizione è la più ferma. Perché il Ponte li riguarda direttamente. Sono gli espropriandi di Messina, il limbo dei dannati a cui l’opera porterebbe via abitazioni e ricordi. «Matteo Salvini non può buttarci fuori di casa per costruire quel mostro». Saranno cinque le aree sottoposte ai piani particellari di espropriazione, ovvero migliaia di lotti. Perché servirà spazio per il cantiere ma anche per alloggi di operai e addetti ai lavori, siti di trasformazione e discariche. La più grande, è quella dei complessi edilizi di via Circuito, che si affacciano sul mare, a metà tra i due meravigliosi laghi. È lì che sorgerà la Torre del Ponte, l’area D, secondo cronoprogramma, il primo cantiere.
Enzo Faranda e Enza Lojacono, cinquant’anni di matrimonio e sei nipoti, ricordano una battaglia iniziata all’alba del secolo a difesa della loro casa, una villetta con vista mozzafiato, costruita da Michele Attilio Rosa, il nonno di Enzo, un ingegnere abruzzese, arrivato a Messina per la ricostruzione dopo il catastrofico cataclisma che distrusse la città nel 1908: «Per la prima volta, nel 2002 – racconta Enzo – abbiamo sentito parlare di espropri. Eravamo e siamo arrabbiati anche perché non ci è mai stato comunicato nulla. Ho 75 anni, ho insegnato all’Università di Messina, sono in pensione e mi godo i miei nipoti tra queste mura, guardando chi ha appena comprato casa. Gli affetti e i ricordi non si pagano. Inutile parlare di soldi e risarcimenti».
Tra i nuovi abitanti c’è chi è sicuro che alla fine non se ne farà nulla. «Il Ponte? È solo uno slogan elettorale». Lì accanto c’è il complesso “Torre Faro” e il Pilone, il traliccio in disuso diventato un’attrattiva, al centro di un progetto di riqualificazione che ha proceduto a singhiozzo al ritmo degli annunci sul Ponte. Intorno si è sviluppato un tessuto economico che il cantiere spazzerebbe via. Fatto di botteghe e chioschi. Il più identitario è “U cioscu da calia”, la rivendita di semi e frutta secca: «La mia attività ha sessant’anni di storia. Mio nonno – dice Giovanni, per tutti “Paperino”, papà di quattro figli – l’ha creata facendo tanti sacrifici. Mi sembra di vivere un incubo. Il Ponte lo vogliono quelli che pensano che siamo in America e non vogliono vedere le eterne incompiute di questa città e della Sicilia. Io li aspetto qui. Ma in catene».
A pochi chilometri, su viale Annunziata, dove c’è lo svincolo autostradale, uno dei simboli dei lavori avviati e mai completati, dovrebbe nascere una stazione ferroviaria. E così anche Speranza – «niente cognome, per carità» – da qui a nove mesi, potrebbe ritrovarsi tra gli espropriandi insieme con il marito ottantenne. «Era la casa dei miei genitori. Ho saputo che l’abbatteranno per farci un deposito di materiali o un alloggio per gli operai».
L’avvocato Carmelo Briguglio, 78 anni, è il riferimento legale e la memoria storica degli espropriandi: «Era il 2003 quando ho iniziato a occuparmi del Ponte. Da allora, periodicamente, la litania si ripropone. Adesso, però, sono preoccupato. Intorno a questo affare è stata costruita una camicia di ferro. Per smontare una legge serve la Corte costituzionale e si preannuncia una corsa a ostacoli». Il miraggio di strabilianti risarcimenti ammalia, ma è l’illusione di pochi. Che l’avvocato Briguglio smorza: «Sento dire: “Tanto ci pagheranno la casa tre volte il valore”. Ma non c’è nulla di nulla, neppure uno straccio di avviso. Solo Salvini che ha impresso questa nuova accelerazione». Dove dovrebbe sorgere il Viadotto Pantano vive Rosa Cattafi: «Io non me ne vado. Salvini dice che prima faranno il Ponte sullo Stretto e poi tutto il resto, come strade, autostrade e ferrovie. E l’alta velocità. Ecco, noi invece pretendiamo di avere ciò che ci serve davvero».
Tra gli storici “nopontisti” messinesi, c’è Daniele Ialacqua con la moglie Mariella Valbruzzi e i figli, Giuseppe e Nicola. Con il comitato “No Ponte – Capo Peloro”, Daniele ha organizzato la prima edizione dei “No Ponte Awards”: «Una manifestazione ironica, abbiamo premiato Fiorello con il suo alternativo ponte tibetano, i fumettisti Makkox e Lelio Bonaccorso, l’attore messinese Maurizio Marchetti, il geologo Mario Tozzi e la scrittrice messinese Nadia Terranova. E un premio speciale lo abbiamo riservato a don Luigi Ciotti, oggetto, questa estate, di ingiuste accuse, per la frase “il Ponte non unirà solo due coste, ma due cosche”. Abbiamo premiato anche i favorevoli tra cui il senatore Nino Germanà e, ovviamente, il ministro Matteo Salvini». Ialacqua riflette sull’impatto dell’eventuale cantiere. Non solo case e attività. Il Ponte rischia di scomodare anche i defunti del cimitero di Granatari. «Bisognerà abbattere ben due cappelle. Tra cui la “chiesetta” all’entrata del cimitero. È il triste ritratto di un’Italia che anziché abbattere crisi, emergenze sociali e abitative e barriere architettoniche preferisce abbattere case, tombe, ricordi e storia».
La curva della preoccupazione cresce però di pari passo con lo scetticismo circa l’effettiva realizzazione del progetto. «Francamente – dice Ialacqua – viene difficile credere che in poco più di quattro mesi si siano potuti aggiornare gli oltre 8.000 elaborati di cui è composto il progetto». Intanto però ci sono le infinite porte girevoli che riguardano il comitato tecnico scientifico scelto dal ministro. Quasi tutti i membri, con il coordinatore Alberto Prestininzi, hanno già lavorato per anni come consulenti della “Stretto di Messina Spa”, la società riesumata dalla liquidazione. Claudio Borri è stato già membro del comitato scientifico della società. Come, del resto, Giuseppe Muscolino che ha svolto quell’incarico in due riprese fino al 2012. Quando Mario Monti scrisse la parola fine. O almeno così credeva.