C’è un punto su cui dovrebbero essere tutti d’accordo: la transizione digitale può abilitare e accelerare processi di sostenibilità sociale e ambientale. È il famoso binomio Verde&Blu che spadroneggia su tutte le testate e travolge le sale convegni post Covid ma che a stento aleggia sui programmi politici e di governo non lasciando segni concreti al suo passaggio…
Perché per andare dalle parole ai fatti servono strategia e visione. Ma soprattutto concertazione: a monte, nello sviluppo delle tecnologie e delle sue applicazioni; quindi nella formazione delle competenze; a valle predisponendo regole che agevolano i processi di sviluppo, crescita, e protezione sociale e ambientale e ottimizzano le risorse.
Lo chiediamo a un osservatore superpartes, quel filosofo di Oxford Luciano Floridi che ha dato l’anima a il “il verde e il blu” nel suo libro e che l’università americana Yale ha appena chiamato a fondare e dirigere quello che già si preannuncia come uno dei più prestigiosi centri di ricerca del mondo, lo Yale Center for Digital Ethics. Con un “ponticello” che porta dritto dritto all’Alma Mater di Bologna dove Floridi ha messo il cappello anche sul quarto supercomputer più potente della terra made in Europe.
Chi guida il Paese dovrebbe guardare alla luna e non al dito. Da dove si comincia per andare dove?
«Ci vuole il coraggio, l’intelligenza e la capacità di progredire in modo costruttivo e affrontare la questione digitale adesso: investire sulle persone, sulla scuola, in formazione e progettazione. La svolta digitale non sparirà, non si può ignorare o lasciarne la gestione a generazioni future, è un processo che bisogna cogliere appieno oggi, plasmandolo e gestendolo da protagonisti. È un errore cercare di arginare o contrastare le trasformazioni digitali, magari con provvedimenti episodici e scollegati, che raggiungono un solo risultato: ritardare i processi di innovazione. È facile parlare da filosofo, me ne rendo conto, ma chi fa politica e governa deve investire nelle strategie a lungo termine e accettare l’evidenza: questo Paese ha un bisogno enorme di formazione e di competenze, non solo ma anche digitali, sia per il mercato nazionale sia per quello internazionale. Rischiamo di lasciarci sfuggire un’occasione che potrebbe non riproporsi più».
Il collegamento tra scuola, università e imprese è un altro nodo da sciogliere; è l’unico modo per assicurare il “travaso” di queste competenze nel sistema produttivo.
«Anche in questo caso non bisogna guardare al passato come se fosse ricco di soluzioni che si possono semplicemente applicare. Il passato è pieno di lezioni, di fiducia per quello che è stato fatto bene - pensiamo al successo del Tecnopolo di Bologna - e di errori da non ripetere, pensiamo alla mancata opportunità nucleare. Non investire nel rapporto tra digitale e sostenibilità sarebbe oggi un errore storico, una posizione novecentesca che rimpiangeremmo: l’Italia è una delle nazioni più importanti del mondo, di quelle che possono fare la differenza, basti pensare al G7, e ha la responsabilità di guidare come leader la politica europea, non svolgere un mero ruolo di comparsa, lasciando le decisioni più importanti a Berlino e Parigi. Un piccolo esempio. Nel Mare del Nord, l’energia elettrica prodotta dal vento potrebbe fare una differenza enorme per le politiche energetiche europee. Perché l’Italia non può avere un ruolo dominante, nel Mediterraneo, nel valorizzare la straordinaria opportunità solare che caratterizza questa regione dell’Europa, e diventare un serio contribuente alle politiche energetiche del continente? Chiaramente ci sono molti aspetti tecnici, finanziari, culturali e sociali, non voglio minimizzarli, ma questi devono essere inseriti in una strategia politica che può essere realizzata, volendolo, con intelligenza e lungimiranza».
Il sistema governativo dovrebbe incentivare quello d’impresa con provvedimenti adeguati (finanziari, fiscali, costo del lavoro)?
«Non so se ci sia bisogno di incentivi finanziari, sconti fiscali, o condoni. Ma sono convinto che bisognerebbe facilitare la vita lavorativa e imprenditoriale di chi vuole migliorare il Paese, e per far questo è necessario rimuovere gli ostacoli burocratici e creare una pubblica amministrazione che sia all’altezza delle sfide che dobbiamo affrontare. C’è tantissimo spazio per migliorare ed eliminare inefficienze e costrizioni che rendono troppo complessi e costosi e soprattutto lentissimi anche i processi più elementari. Il Government Effectiveness Index (indice elaborato dal World Bank Group Gruppo della Banca) misura la qualità dei servizi pubblici, del servizio civile, la formulazione delle politiche, l’attuazione delle politiche e la credibilità dell’impegno di un governo per elevare o mantenere elevate queste qualità. L’Italia è al 63° posto su 193 Paesi classificati. Sarebbe bello se il governo s’impegnasse a un miglioramento per entrare tra i primi 50. Chi governa ha gli strumenti e le competenze per provare seriamente ad alleggerire il costo burocratico che frena l’Italia da troppo tempo».
Anche le città, quindi i sindaci, hanno un ruolo decisivo: nella gestione della mobilità, dei servizi, dell’assistenza sanitaria. Una città “pensata” è una città che consuma e impatta meno.
«Sono questi i network produttivi che a volte sono anche meno condizionati dalla posizione geografica. Il Paese è un caleidoscopio composto da 1000 Italie tutte straordinarie e potenzialmente di successo. La difficoltà sta nell’agire sul delicato equilibrio tra massima distribuzione del potere decisionale e esecutivo e la capacità di coordinamento complessivo. Una piccola analogia per intenderci: tanto più grande è l’orchestra tanto più bravo deve essere il direttore; ma non è lui che esegue la musica; né l’orchestra può funzionare senza direttore. Tanto più il sistema si decentralizza per distribuire risorse e capacità a livello locale, urbano ma anche regionale e ai network produttivi; tanto più l’amministrazione pubblica, il parlamento e il governo, e chi si occupa di policy, deve saperle coordinare in maniera abile ed equilibrata. L’Italia non è coesa, non è definita in una singola identità ma è un mosaico straordinario. Purtroppo oggi è frammentato, le parti a volte non combaciano più e forse alcune si sono perse. Non siamo ancora riusciti a raggiungere un buon equilibrio ma è una sfida, anche in questo caso, che si può vincere se si agisce in termini di network e non con una mentalità meccanicistica novecentesca, meramente accentratrice».
Verde e Blu vuol dire lavoro per i giovani, imprese che crescono, il pubblico che risponde alle esigenze del Paese. Tutti i partiti dovrebbero avere un piano. Ma questo non succede.
«Non succede soltanto oggi, e non soltanto nel nostro Paese. Certo da noi si lavora guardando spesso nello specchietto retrovisore, e chi guarda troppo al passato non pianifica con fiducia il futuro. Sa da dove veniamo, questo sì, ma per capire dove vogliamo andare ha bisogno di dare almeno un’occhiata al futuro, in modo progettuale e costruttivo. Se lo fa, allora può attivare quella politica con la p maiuscola che abilita e facilità lo sviluppo migliore. Le forze politiche devono capire che la vera sfida di oggi e del domani è proprio quella sociale e ambientale, e la sua risoluzione passa attraverso il digitale e le sue applicazioni: abbiamo bisogno di risorse distribuite meglio, una società più equa e più sostenibile. Non ci vuole molto per capirlo: si può non essere d’accordo sul come raggiungere l’obiettivo, e qui la politica ha il suo giusto campo di azione mediatrice, ma non sul fatto che bisogna raggiungerlo».
Posizione scalabile a livello continentale. Anche qui c’è da lavorare molto in un’Europa sempre più segmentata.
«Non possiamo pensare che l’Europa decida per noi. Dobbiamo essere più presenti per contribuire a governarla da protagonisti. Non ci si può certo lamentare delle scelte di Bruxelles e dimenticare che siamo una delle nazioni più influenti, con Germania e Francia. Siamo una grande economia e una grande cultura che può fare veramente la differenza. Dobbiamo smettere di pensare al parlamento europeo come un luogo distante e inutile. Un contributo influente a Bruxelles, di un grande Paese come l’Italia, è ormai inevitabile e auspicabile a tutti i livelli. Presenza, competenza, e buone idee da realizzare con coraggio e fiducia. Anche in politica è bello partecipare, ma l’ambizione ragionevole deve essere salire sul podio, e l’Italia ha tutte le ragioni per riuscirci».