Nella zona rossa del Vicentino inquinata dai veleni, il gestore idrico sblocca la procedura per la fornitura. La lettera aperta di una residente: istituzioni lente, i media continuino a vigilare

«Colgo l’occasione per ringraziare L’Espresso, Greenpeace e tutti i loro collaboratori per aver divulgato a livello nazionale il gravissimo problema legato all’inquinamento da Pfas. E auspico che i media continuino a vigilare, data la lentezza delle istituzioni».

 

Antonietta prende la penna e fissa su carta quello che sembrava un traguardo impossibile dopo dieci anni di battaglie estenuanti: l’accesso all’acqua potabile per lei e la sua famiglia. Una storia scandalosa - che L’Espresso ha avuto modo di raccontare - che si è consumata in una grande Regione come il Veneto. Qui, nel triangolo tra Verona, Vicenza e Padova, la Miteni, azienda produttrice di sostanze perfluoroalchiliche (meglio note come Pfas), ha inquinato la seconda falda acquifera più grande d’Europa. Una vittoria dal basso, raggiunta da cittadini e comitati locali affiancati da associazioni e da qualche giornale più sensibile, nel silenzio assordante delle istituzioni. A cui hanno fatto eco i meccanismi di una burocrazia elefantiaca tutta italiana. Eppure parliamo di quasi 350 mila abitanti esposti a rischio contaminazione di quelli che vengono definiti prodotti chimici “eterni”, perché persistono e non si degradano nell’ambiente. E che possono provocare danni alla tiroide, al sistema riproduttivo, tumori ai reni e ai testicoli. Tanto che l’Europa ha deciso di metterli al bando.

Veneto
Pfas, il veleno nell’acqua e nel sangue. Ma i controlli sono una beffa che discrimina i cittadini
28/2/2023

 

«Sono nata a Lonigo, in provincia di Vicenza, in via Lore 3 dove tuttora vivo con la mia famiglia. La nostra unica fonte idrica è un pozzo profondo 60 metri che utilizziamo sia per uso domestico che per irrigare l’orto, da cui ricaviamo frutta e verdura», scrive Antonietta. «Per bere e mangiare compriamo da anni, e di tasca nostra, bancali di acqua in bottiglia». Antonietta dal 2017 - quando la Regione viene costretta ad adottare un Piano straordinario di emergenza - abita nella zona rossa. Ovvero nell’area a maggiore rischio sanitario dove sono contaminate l’acqua potabile, le falde acquifere e i fiumi. E dal 2014 aspetta che la sua casa, come quella degli altri abitanti di via Lore, venga allacciata all’acquedotto decontaminato come promesso dal sindaco. Anni vissuti tra screening sanitari, ricerche, consulti. Ma anche manifestazioni, denunce e carte bollate. Nonostante le analisi della sua famiglia parlino chiaro: «A oggi - spiega – il solo livello di Pfoa (uno dei composti dei Pfas) presente nel mio sangue è di 304 nanogrammi per litro, supera 890 quello di mio marito e oltrepassa 740 quello di mio figlio». Numeri da far tremare i polsi se si pensa che l’Istituto Superiore di Sanità fissa a otto nanogrammi per litro il limite di tutti i Pfas tollerabile per il sangue.

 

«Nel 2016 la precedente amministrazione comunale ci informa dell’inserimento del nostro quartiere nel primo stralcio dei lavori per portare l’acquedotto alle aree sprovviste», scrive Antonietta. I lavori però non vengono mai eseguiti «e le nostre sei abitazioni spariscono di colpo dalle mappe della zona. Dopo contatti continui con il nuovo sindaco, il 5 dicembre 2022 viene effettuata la posa della tubazione principale e le predisposizioni degli allacci». Ma a via Lore di acqua decontaminata non se ne vede ancora nemmeno una goccia. Le cose cambiano a febbraio, racconta, «dopo che L’Espresso pubblica “Acqua e sangue. Dove scorre il veleno”, cui fa seguito un comunicato di Greenpeace». Reportage di denuncia «ripresi dal Giornale di Vicenza che infastidiscono (forse) il gestore idrico, Acque del Chiampo, che comunica l’attivazione del servizio una volta terminati i lavori per l’allacciamento». È possibile dunque fare finalmente domanda per i nuovi allacci, anche se a spese degli utenti (quasi 900 euro). Oggi Antonietta sa che a trenta giorni dall’arrivo del preventivo del 20 marzo avrà finalmente acqua da bere pulita per lei e per la sua famiglia. Un traguardo storico che segna un prima e un dopo in una storia scandalosa. Ma chiede di non abbassare la guardia: il disastro ambientale della Miteni è noto dal 2013 e in dieci anni c’è ancora gente che aspetta l’acqua potabile.