Diritti

Fine vita, la Consulta rinvia la decisione. Cappato: «Aiutare Massimiliano era nostro dovere. Noi andremo avanti»

di Chiara Putignano   20 giugno 2024

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Il tesoriere della Luca Coscioni, Chiara Lalli e Felicetta Maltese rischiano fino a 12 anni per aver accompagnato a morire un 44enne affetto da sclerosi multipla. Per l'avvocatura di Stato «le cure palliative sono la soluzione»

«Fratelli di questa Italia, mi chiamo Mib, e a 44 anni vorrei essere aiuto a morire a casa mia. Da sei anni soffro di una sclerosi multipla che mi ha già paralizzato. Non sono più autonomo in niente. La malattia progredisce e peggiora giorno dopo giorno». Così Massimiliano, che in un’altra vita amava suonare e riparare oggetti, in un video diffuso prima di andare in Svizzera per usufruire del suicidio assistito. Alla fine è morto lontano da casa sua l’8 dicembre del 2022. Anche se avrebbe voluto farlo in Italia, «ma non posso perché non dipendo da trattamenti vitali».

 

Attesa per mercoledì 19 giugno, la sentenza della Corte costituzionale - chiamata ad esprimersi per la seconda volta sul suicidio medicalmente assistito - è stata posticipata di qualche settimana. La prima risale al 2019, quando si è pronunciata in merito al caso di Dj Fabo. A sollevare la questione la gip del tribunale di Firenze, che ha respinto l'archiviazione della vicenda che vede coinvolti il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese. I tre, nel caso di un interpretazione restrittiva da parte della Corte, rischiano fino a 12 anni di carcere, in base a una legge sull’istigazione al suicidio che risale al 1930. Il motivo? Aver aiutato il 44enne a realizzare la sua volontà: mettere fine alle sofferenze. «Passa le giornate immobilizzato, tra il suo letto e una carrozzina, per qualche chiacchiera in cucina con gli amici e i parenti che lo amano e che sono pronti a rispettare la sua scelta, perché è Mib che vive in quel corpo e solo Mib può decidere cosa sia meglio per lui», scriveva l’associazione sotto al videoappello in cui l'uomo si è raccontato pubblicamente prima di morire.

 

Il giorno dopo essere tornati dalla Svizzera, dove avevano accompagnato Massimiliano, Cappato, Lalli e Maltese si sono autodenunciati alle forze dell’ordine di Firenze. Lo scorso ottobre poi c’è stata la richiesta d’archiviazione da parte della procura. Passa un mese e la gip di Firenze ritiene di non poter accogliere la richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero e dagli avvocati degli indagati. Sollevando così la questione di costituzionalità del requisito del sostegno vitale per violazione degli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione. 

 

La dipendenza da trattamenti vitali è infatti uno dei paletti messi dalla Consulta con la sentenza n. 242/2019. Sentenza che, vista l'inerzia del Parlamento sul fine vita, costituisce una prima base giuridica per il suicidio assistito in Italia. Massimiliano tuttavia non dipendeva ancora da questo tipo di trattamenti, «intesi in senso restrittivo o meccanico o classico (come: presidi, farmaci o macchinari sanitari con la funzione di rallentare il progredire della malattia e quindi l’evento morte)», spiega l'associazione. Eppure, sebbene non legata a ventilazione meccanica o simili, la sopravvivenza di Massimiliano negli ultimi anni era diventata ad appannaggio di persone terze. Senza le quali non avrebbe potuto svolgere alcuna delle attività quotidiane e basilari per la vita. Proprio su questo la Corte si dovrà esprimere. Se, in sostanza, la sentenza del 2019 possa o non possa essere interpretata in maniera estensiva. Tra le altre condizioni poste dopo il caso di Dj Fabo dalla Consulta: l’esistenza di una patologia irreversibile, che sia fonte di sofferenze intollerabili e la capacità della persona di prendere decisioni libere e consapevoli

 

«Abbiamo aiutato Massimiliano perché lo ritenevamo fosse nostro dovere, per interrompere una situazione di tortura a cui era sottoposto», ha commentato Cappato a margine dell’udienza. «Tornassimo indietro lo rifaremmo per lui e per tutte le persone che sono nelle sue condizioni». E poi aggiunge: «A nulla sono valse le parole del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che il 20 maggio aveva dichiarato “ultimamente su questo l’attività del Parlamento è lenta rispetto a quella della Corte Costituzionale, che in questo senso sembra essere più realistica nel confronto con il Parlamento”». Cappato e gli altri “disobbedienti", «qualunque sarà l’esito», si dicono pronti ad affrontare le conseguenze. E «continueremo fino al raggiungimento dell’obiettivo di ottenere il pieno riconoscimento del diritto all’autodeterminazione».

 

Di contro, l’avvocato dello Stato, Ruggero Di Martino, è convinto che le cure palliative siano uno «strumento utile per eliminare le sofferenze. A nostro parere sono la soluzione più giusta per venire incontro alle esigenze presentate». Non solo, ritiene anche che non ci sia «spazio per individuare ulteriori ragioni che possano consentire l’esclusione delle sanzioni». Perché un «allargamento» della sentenza del 2019 equivarrebbe a «introdurre una sorta di liberalizzazione». Speculare la posizione dell'avvocata Filomena Gallo dell'associazione Luca Coscioni che sostiene: «Oggi non è in discussione il diritto a morire, ma la discriminazione esistente tra diversi malati sul suicidio assistito. Il diritto a morire cambia in base al trattamento di sostegno vitale. Anche l’assistenza continua è un sostegno vitale. Non chiediamo che la cintura di protezione della vita diventi evanescente - conclude - ma di definire l’area di non punibilità».