Il primo testo che gli frutta 5mila lire, i 523 milioni di dischi venduti (terzo la mondo dopo i Beatles ed Elvis), le grandi collaborazioni, il calcio e la famiglia. Dialogo a tutto campo con il maestro

Il nome d’arte, Mogol, è preso in prestito dal capo delle Giovani Marmotte: un tipo audace, con il terrore del volo. Forse per questo il quartier generale che Giulio Rapetti Mogol ha creato una trentina d’anni fa si raggiunge solo attraverso una strada abbastanza malconcia, dove le gallerie non sono di cemento, bensì di fronde verdeggianti. Siamo in Umbria, a Toscolano, borgo arroccato intorno a un castello duecentesco che diede i natali a un certo fra’ Faostino, predicatore che arrivò in Israele e ne raccontò usi e costumi nel libro “Itinerario di Terra Santa”.

 

E, in effetti, un’aria di sacralità si respira nella Tenuta dei Ciclamini, incastonata fra centoventi ettari di bosco, uliveti, orti, frutteti biologici, con una chiesetta perfettamente restaurata e molti dipinti di santi rivisitati in chiave moderna.

 

Polo blu e pantaloni in tinta, la faccia abbronzata di chi pratica sport, occhi verdi vivaci e curiosi della vita, l’autore di circa duemila brani che hanno fatto la storia della musica italiana e internazionale («Ovviamente non posso ricordarmeli tutti e ogni tanto vado a controllare alla Siae») è terzo nella classifica mondiale, con 523 milioni di dischi venduti, dopo i Beatles ed Elvis Presley. «Il primo testo che ho scritto? Si chiamava “Mama Guitar” ed era ispirato all’omonimo film. Guadagnai cinquemila lire per due ore di lavoro. Da lì non mi sono più fermato».

 

Milanese purosangue come papà Mariano e mamma Marina («Quando sono nato, avevano rispettivamente 24 e 21 anni»), classe 1936, due mogli, una compagna, svariate donne amate, quattro figli e sette nipoti («C’è anche Giulia, che si chiama come me»), Mogol ha vissuto intensamente gli anni del Dopoguerra: «Durante il conflitto ero molto piccolo, ma ricordo in maniera nitida l’incubo dei bombardamenti, da sfollati nelle cantine di Carugo, Brianza comasca. Per scacciare la paura giocavo con un cannone di legno, mentre la gente intorno pregava e piangeva. Sono nato in via Clericetti, poco prima del ponte di Lambrate: una via di frontiera, l’ultima della città, la prima della campagna. Crescevo fra palazzi e campi di grano, non lontano dalla ferrovia. Dare calci a un pallone mi è sempre piaciuto. I golfini come porta e via. Ero un bambino iperattivo: una volta a settimana mia madre mi portava in centro e mi vestiva per bene. Non faceva in tempo a prepararmi che mi ero già sporcato. A scuola, poi, un vero disastro. Risultato? Fui bocciato agli esami di quinta elementare perché, secondo la maestra, ero andato fuori tema. Bisognava descrivere le città del Duemila e io misi nero su bianco che avremmo avuto grattacieli come casa e ci saremmo spostati solo su pattini a rotelle. Una bella immaginazione. Che però mi fruttò un pessimo voto».

 

Con un diploma da ragioniere in tasca (ma ha avuto una laurea ad honorem dall’Università di Palermo), a 18 anni Mogol entra in Ricordi. «Papà era un impiegato della casa discografica e, con lungimiranza, propose ai suoi capi di aprire la sezione pop, Radio Record Ricordi. Gli diedero una scrivania, un telefono e un milione di lire. Costruì un business: in dieci anni i guadagni superarono quelli della musica classica. E scoprì interpreti del calibro di Luigi Tenco, Gino Paoli, Sergio Endrigo, Bruno Lauzi. Nel frattempo, io facevo il computer umano: conteggiavo gli incassi delle canzoni e studiavo i grandi compositori dell’epoca come Carlo Donida Labati (che musicò, fra le altre, “La compagnia”, portata al successo nel corso degli anni da Marisa Sannia, Lucio Battisti, Mina e Vasco Rossi, ndr). In quel periodo fui spedito in Inghilterra per imparare la lingua, mi ospitava un’anziana coppia. Ero incline allo scherzo e ricordo che m’improvvisavo accompagnatore di tutti gli studenti italiani che arrivavano a Londra, senza mai rivelare la mia identità».

 

Un legame, quello fra Mogol e Londra, che è andato avanti nel tempo. «David Bowie mi chiese di scrivere in italiano la sua “Space Oddity” (1969), che diventò “Ragazzo solo, ragazza sola”. Nessuna somiglianza col testo originale. Bernardo Bertolucci l’ha usata per il suo film “Io e te” (2012). Più complicato il rapporto professionale con Bob Dylan: stavo lavorando al brano “Mr. Jones” (titolo originale: “Ballad of a Thin Man”, ndr) e mi convocò al Mayfair Hotel, dove c’era il suo quartier generale. Fui accolto da due giovani che iniziarono a riprendermi con una cinepresa dicendomi che Bob aveva deciso di filmare tutta la sua vita. Iniziai a spazientirmi, avevo solo voglia di andarmene. Ma la collaborazione continuò».

 

Non si può raccontare il Mogol-pensiero senza parlare del lungo sodalizio artistico con Battisti, che, dal 29 settembre al 1° ottobre prossimi, sarà ricordato a Milano con una manifestazione dal titolo “Quel gran genio”, a 25 anni dalla sua scomparsa. «A presentarci fu Christine Leroux, discografica francese che lavorava per l’etichetta Les Copains. Il primo approccio non mi convinse. Ci rincontrammo dopo qualche giorno. All’inizio abbiamo composto brani per altri interpreti, da I Ribelli ai Dik Dik fino all’Equipe 84 di Maurizio Vandelli. Sul finire degli anni Sessanta esplode il successo di “29 settembre”, cronaca di un tradimento (“E ancora prima di capire mi trovai sottobraccio a lei. Stretto come se non ci fosse che lei”). Un tradimento che passerà alla storia».

 

Nel 1969, Mogol con il papà Mariano, Alessandro Colombini, Carlo Donida e, successivamente, lo stesso Battisti fondano la casa discografica Numero Uno. L’addetta stampa e promozione era Mara Maionchi. Come sono nate le canzoni da hit parade? «Molti dei miei testi si materializzano mentre guido. “E penso a te” (1970, inizialmente interpretata da Lauzi, quindi da Battisti e poi da Mina, ndr) è stata scritta su una 600, nel tragitto Milano-Como. Lucio suonava la chitarra. Poi Mario Lavezzi ha aggiunto i cori. Stessa cosa per “Emozioni”. Più di recente, un brano come “L’arcobaleno” (“Mi manchi tanto amico caro, davvero. E tante cose son rimaste da dire. Ascolta sempre e solo musica vera e cerca sempre se puoi di capire”), scritto per Adriano Celentano su musiche di Gianni Bella, l’ho dettato in macchina». E mostra la foto sul cellulare di un enorme arcobaleno che abbraccia il cielo sulle rigogliose colline umbre.

 

Mentre le note si sprigionano nell’aria profumata di erba appena tagliata, sopraggiunge l’amico milanese Lavezzi, musicista pop con cui ha realizzato l’ultimo disco dal titolo “Capolavori nascosti”. «È una raccolta di canzoni a quattro mani che racchiude alcune perle come “Per la gloria”, interpretata da Gianni Bella, Riccardo Cocciante, Mango, Raf e dallo stesso Lavezzi, o “Giorni leggeri”, in cui si alternano Lucio Dalla, Cocciante e Lavezzi, scritta nel periodo in cui cercavo un posto adatto dove costruire il Cet (Centro Europeo di Toscolano, dove si sono formati tanti giovani artisti, ndr). Ho girato per un anno intero, tre giorni a settimana, fra Umbria, Toscana e Abruzzo. E infine mi sono fermato qui».

 

Ma l’anima di Mogol non si estrinseca solo nei testi e nei motivi che tutti hanno cantato almeno una volta nella vita («La musica nasce prima delle parole. Poi le parole entrano nella musica»). Ha maturato anche un lato green: «Vivere a contatto con la natura non ha prezzo. Solo così si possono reintegrare le difese dell’organismo che inevitabilmente diminuiscono con l’avanzare dell’età. Da tempo sto lavorando a un libro, “La Rinascita”, che mira a promuovere la cultura della salute, del benessere fisico e mentale. Mi piacerebbe essere ricordato anche per questo».

 

Grazie al calcio, il maestro ha raccolto oltre cento milioni di euro con la Nazionale Cantanti («Da ragazzo tifavo per il Milan, oggi per tutte le nostre squadre che giocano all’estero») di cui è stato animatore fin dagli anni Ottanta con Gianni Morandi. E la passione per i cavalli gli ha permesso di incontrare l’attuale moglie, Daniela Gimmelli. «Eravamo nella pineta della Feniglia, in Toscana. Nel 2006 abbiamo percorso insieme il tragitto Roma-Milano attraverso gli Appennini. Ho macinato chilometri a cavallo. Ma anche in sella alla mia Yamaha Virago blu e al volante delle due Volvo».

 

Automobili che ora guida il fidato collaboratore Adelio. Fra un concerto-conferenza in giro per l’Italia, nell’ambito del progetto “Mi ritorni in mente: le canzoni di Battisti-Mogol”, tratto da un’idea del direttore d’orchestra Angelo Valori, e una puntatina a Roma, dove ricopre l’incarico (a titolo gratuito) di consigliere per la cultura pop su nomina del ministro Gennaro Sangiuliano («Come prima cosa, chiederò il riconoscimento giuridico della figura professionale dell’autore. Non abbiamo neppure una cassa previdenziale»), il maestro guarda al futuro. Dall’alto de “La collina dei ciliegi” e delle sue 87 primavere: «Ne “I giardini di marzo” scrivevo “l’universo trova spazio dentro me, ma il coraggio di vivere quello ancora non c’è”. Adesso il coraggio di vivere c’è, eccome. Arriva quando non hai più paura di morire».