Il fondatore di Gimbe è diventato famoso per la battaglia pro vaccini, contro i no vax e contro i no mask. Ora vuole usare la sua notorietà per salvare il Servizio Sanitario Nazionale. E qui si racconta a L'Espresso

«Sono nato a Palermo, sotto il segno dei pesci, nel 1965 quando la mia Inter dominava il mondo». Siciliano è siciliano. Per forza. Quando lo chiamano in tivù per fare il punto (spesso drammatico) sul Servizio sanitario nazionale, il suo accento arriva prima della sua opinione. Il padre, Gioacchino, era un grande medico in un piccolo paese, Alia, provincia di Palermo, dove trascorre l’infanzia e frequenta le elementari. «Mamma Letizia era casalinga, cuoca sopraffina». E un ruolo speciale nella sua vita l’hanno avuto le sorelle nubili di papà, «zia Concettina e zia Rosa: dedizione sconfinata e premure infinite. Il rituale della telefonata serale non si è mai dissolto. Poi zio Mario che, con la prematura scomparsa di papà nell’80, si trovò a 48 anni con due nipoti orfani da guidare».

 

Nino Cartabellotta ha un fratello, Dario: «Siamo cresciuti sotto il segno della diversità biologica, con gli stessi valori, mai nessuno screzio, un sodalizio rafforzato prima dalla prematura scomparsa di papà, poi dall’aver sposato due sorelle». Dario Cartabellotta è un tecnico e dirige il dipartimento Agricoltura della Regione Siciliana. «Papà aveva una sana ossessione per lo studio che ribadiva con un proverbio siculo che in italiano suona più o meno così: “Nessuno può toglierti quello che hai imparato studiando; ecco perché non dovrai mai smettere di studiare e migliorarti”. E già quando frequentavo le elementari citava spesso Palermo, Roma e Oxford, città dove avrei dovuto frequentare rispettivamente le medie, il liceo e l’università». Ecco perché nell’ottobre del ’75 varca la soglia dell’Istituto salesiano Don Bosco di Palermo. «Con grande disappunto di zia Concettina, che sino a Natale non rivolse la parola a mio padre», colpevole di avere spedito in collegio un “bimbo” di 10 anni. «Rimasi al Don Bosco anche per il liceo classico, perché, dopo la tregua con la zia Concettina, papà non osò certo scegliere Roma per il liceo».

 

Lo studente è promettente e molti gli chiedono che cosa vorrebbe fare da grande: «Ma non ho mai risposto: la ritenevo una domanda inutile. Pensavo a godermi quel tempo». Poco prima della maturità, l’illuminazione: «Farò l’odontoiatra». Da qualche anno era stato istituito il corso di laurea in Odontoiatria, che sembrava allettante, «in 5 anni ti laureavi, eri già specialista e i dentisti facevano soldi a palate». E qui torna in scena zia Concettina, secondo cui una laurea con un unico sbocco professionale era un grande limite. «Così decisi di iscrivermi a Medicina. Ma non senza provare il concorso a Odontoiatria, dove (senza studiare) arrivai terzo».

 

Frequenta Medicina a Palermo. Studia molto, con piccole distrazioni: «Durante l’università ho messo su un allevamento casalingo di gatti certosini, partendo dal capostipite Caligola, vissuto 20 anni». Del mestiere del medico si innamora all’istante: «Ero affascinato dal metodo diagnostico, simile al lavoro dell’investigatore: cercare indizi (segni, sintomi) sino a trovare il colpevole e fare la diagnosi. Anamnesi ed esame obiettivo mirati per elaborare ipotesi diagnostiche preliminari; richiesta di esami diagnostici per confermare, o smentire, le ipotesi iniziali: il metodo Poirot applicato alla medicina». 

 

Al sesto anno approda alla scuola del professor Luigi Pagliaro, «il mio vero Maestro di medicina, metodologia della ricerca e medical humanities. Pagliaro era un pioniere, usava già il termine “evidenze” nel 1988, quando il movimento dell’Evidence-based medicine era agli albori in Canada». Il contesto è suggestivo, le lezioni si svolgono attorno a un enorme tavolo, in una ricchissima biblioteca che lui e altri docenti avevano voluto per l’Ospedale Cervello. Quelle lezioni gettano il primo seme per la nascita di Gimbe, Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze, l’associazione di Cartabellotta che ha condotto tutti i dossier e i report sul Covid.

 

Durante i 9 anni di specializzazione – gastroenterologia prima e medicina interna poi – era possibile incontrarlo nei corridoi del Policlinico o al Cervello con indosso il camice bianco: «Applicavo il dettato di Pagliaro: empatia e rispetto per il paziente, studio continuo, per approfondire i gap di conoscenza che emergono nella pratica clinica quotidiana. L’unico brutto ricordo riguarda i pazienti che non ce la facevano: la morte di un malato che curi lascia sempre un senso di sconfitta». Oltre a un episodio surreale: durante una notte di guardia medica, dei ragazzi precipitarono con l’auto in una scarpata: «Mi calai con una corda per prestare i primi soccorsi e decisi di chiamare l’elisoccorso. Nei giorni successivi la direzione sanitaria minacciò di addebitarmi i costi delle operazioni di salvataggio».

 

Gimbe nasce un po’ per gioco: il 15 marzo del ’96, ispirato dall’Evidence-based medicine working group che in Canada – sotto la guida del suo padre spirituale, David Sackett – aveva dato vita al movimento culturale dell’Ebm, Cartabellotta costituisce l’associazione Gimbe, che lo porta a girare come un globetrotter per le aziende sanitarie a formare medici, infermieri e altri professionisti sanitari. «L’obiettivo ufficiale era diffondere l’Ebm in Italia, ma l’ambizione (non dichiarata) e l’aspirazione (nascosta) erano di creare un’organizzazione indipendente, sganciata da qualsiasi istituzione. Per poter godere sempre della massima libertà di espressione e non rinunciare alla mia onestà intellettuale».

 

La passione per l’organizzazione e la gestione dei servizi sanitari arriva più avanti: nel 2005 quando l’esperienza didattica di Gimbe si era già consolidata in numerose aziende sanitarie. Contestualmente, inizia a crescere l’interesse per le politiche sanitarie che nel marzo 2013 ha dato vita alla campagna #SalviamoSsn.

 

È nel 2006, negli anni peregrini della didattica, che Gimbe e Cartabellotta migrano a Bologna: «Con mia moglie Giusi, pediatra di famiglia, e i miei tre figli, Gioacchino, Salvatore e Antonio. Ora loro sono grandi: Giocchi, 28 anni, fa l’avvocato a Milano. Salvo, 26, è laureato in economia e lavora alla Ducati. Anti, 24 anni, è medico specializzando in oftalmologia». Dicevamo, Bologna, «scelta per la vivibilità e l’eccellente logistica necessaria per i miei continui spostamenti. E ispirato da una frase di Edmondo Berselli: l’Emilia-Romagna è il Sud del Nord e il Nord del Sud». Addirittura ammette di essersi «serenamente adattato al mare di Riccione». L’età lo ha riavvicinato, ma non troppo, alla Sicilia, dove trascorre il mese di agosto per affrontare il tour tra famigliari e relative grigliate.

 

«I siciliani che vanno via appartengono a due categorie. Quelli che partono per tornare e dimostrare agli altri che cu nesci arrinesci, ovvero che hanno avuto successo fuori dalla Sicilia. E quelli, come me, che non vogliono più tornarci: perché a farci andare via è stata l’impossibilità di realizzare i nostri sogni e le nostre ambizioni». Sicilia, terra bella e dannata: «Se avesse utilizzato l’autonomia come Bolzano, investendo esclusivamente sul turismo, oggi sarebbe la Regione più ricca del mondo. La politica, invece, ha fatto – e continua a fare – altro». Gli effetti sono disastrosi anche sul fronte sanitario, «fatto di medici eccellenti (che vanno via), manager mediocri, politica scadente. Ma è un po’ la storia della sanità di tutto il Sud Italia». In generale, spiega Cartabellotta, si sta passando da un servizio sanitario fondato su universalità, uguaglianza, equità per tutelare un diritto costituzionale, «a 21 sistemi sanitari regionali basati sulle regole del libero mercato. Nel 2024 la situazione del personale sanitario potrebbe peggiorare ulteriormente. È un declino iniziato 15 anni fa: quando i governi (di tutti i colori) hanno progressivamente definanziato il Ssn, senza mai attuare coraggiose riforme, relegandolo in fondo alle priorità dell’agenda politica, perpetuando la (non) strategia della manutenzione ordinaria».

 

Gimbe invoca un patto politico e sociale che, prescindendo da ideologie partitiche e avvicendamenti di governo, rilanci con adeguati investimenti e coraggiose riforme quel servizio sanitario nazionale che 45 anni fa il Parlamento legittimò come la più grande conquista sociale della popolazione italiana: «In alternativa, sarebbe più onesto prendersi la responsabilità politica di governare il passaggio a un sistema misto, come nei fatti sta avvenendo, amplificando le diseguaglianze sociali». È una tematica che ha fatto da cornice al recente incontro con il presidente Sergio Mattarella, a cui Cartabellotta ha presentato il Rapporto Gimbe sul Servizio sanitario nazionale e la campagna #SalviamoSsn, che «darà vita a una rete civica nazionale, con sezioni regionali per diffondere a tutti i livelli il valore del Ssn, come pilastro della democrazia, strumento di equità e giustizia sociale, oltre che leva di sviluppo economico».

 

L’obiettivo di Cartabellotta è sfruttare la notorietà mediatica che ha ottenuto – e di cui continua a godere – grazie ai puntuali interventi televisivi in epoca Covid: «Sono stati anni impegnativi: durante le prime ondate non sono mancati gli scontri istituzionali su trasparenza dei dati e decisioni tardive, che inseguivano sempre il virus. Poi la sfiancante battaglia con il variegato mondo dei no-vax e no-mask, inclusi politici, personaggi pubblici e medici». All’orizzonte, però, c’è un’altra battaglia: «Purtroppo, al di là delle difficoltà di accesso ai servizi, troppi non hanno ancora contezza del rischio imminente di perdere la sanità pubblica». Un compito difficile, addolcito da qualche passione: collezionare Topolino e Diabolik. E cucinare la pasta: «Vanto la creazione del popolare hashtag #chepastacalo».