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Non servono più carcere e nuovi reati
L’utopia repressiva è il mantra della destra, ma di fronte ai fenomeni sociali la risposta penitenziaria non è utile, spiega l’ex presidente della Camera Luciano Violante
Leggi penali e libertà civili. Dopo il sì di Montecitorio al ddl Sicurezza, ne parliamo con Luciano Violante, presidente della Fondazione Leonardo Civiltà delle Macchine, giurista, ex magistrato, già presidente della Camera, per decenni con ruoli di primo piano nella sinistra italiana (dal Pci al Pd).
Presidente Violante, nello scontro politico, il ritorno della contrapposizione fra sicurezza e diritti di libertà non le appare una regressione per tutti?
«Ogni legge penale pone l’alternativa tra libertà e sicurezza. Per mantenere l’equilibrio è necessario che la legge penale sia ragionevole, cioè motivata dalle circostanze di fatto, ed equilibrata, cioè proporzionata alla gravità del fatto commesso. Nel tentativo di reggere questo equilibrio ci troviamo schiacciati tra l’utopia repressiva e l’interpretazione sociale del reato. Secondo l’utopia repressiva, solo la repressione assicura la sicurezza e conseguentemente al massimo di repressione e di emarginazione corrisponde il massimo di sicurezza. All’opposto c’è l’interpretazione sociale che tende a individuare nel reato non tanto libere scelte individuali quanto cause sociali, e quindi propende per la mitezza della pena e per l’impegno a rimuovere le cause sociali che hanno prodotto il reato. Il reato è essenzialmente mancanza di rispetto per un diritto altrui, alla vita, alla libertà, alla proprietà. Attraverso la pena occorrerebbe trasmettere la cultura del rispetto. È quello che la Costituzione chiama rieducazione del condannato».
Ma è possibile?
«Molte volte è possibile. Ma dipende da due fattori. Il primo fattore è la natura del reato: una strage di mafia o un grande traffico di stupefacenti. In questi casi la punizione prevale. Il secondo fattore è costituito dal carcere nel quale si sconta la pena. Se in quel carcere sono rispettati i diritti dei detenuti, molto probabilmente i detenuti si educheranno al rispetto dei diritti altrui. Se invece saranno costretti a vivere in condizioni indegne o disumane, se saranno sottoposti a umiliazioni, saranno forse contenti i sostenitori dell’utopia repressiva, ma si creano i presupposti per una scuola del crimine in carcere. Vede, quando un giudice infligge cinque o sei anni di reclusione, si apre un corridoio oscuro: il condannato può scontare quegli anni in un carcere disumano o in un carcere dove la sua umanità viene rispettata. Il giudice non lo sa, e non lo sa neppure il condannato; ma da quella scelta, che è puramente amministrativa, dipende il destino della persona condannata. Il provvedimento votato dalla Camera, non si preoccupa delle condizioni di vita nei penitenziari o nei luoghi in cui sono detenuti gli immigrati. Si limita a punire severamente ogni forma di rivolta, anche passiva».
Anche qui va trovato un equilibrio.
«Le punizioni, i divieti, a volte sono necessari ma creano un ordine illusorio fondato sulla paura, non sul consenso. È evidente che in alcuni casi occorrono la punizione e il divieto. Ma in molti altri è necessaria la rieducazione, passando attraverso la socializzazione. Manca una discussione e una teoria di cosa debba essere la pena nel XXI Secolo. Circa 2.500 anni fa, Antigone fu condannata a essere reclusa in una grotta murata, senza poter uscire. Oggi cosa facciamo? Chiudiamo in celle, a volte simili alla grotta di Antigone, le persone cha hanno commesso i reati. Abbiamo costruito tanti diritti a partire del Settecento, sui quali si potrebbe incidere, ma la pena negli ultimi duemila anni è più o meno sempre la stessa! Non ci sono altre misure? Penso al divieto di uscire di casa e di ricevere persone nel fine settimana, oppure al ritiro della patente negli stessi giorni, alla intensificazione dei lavori di pubblica utilità, ma veri, come curare i giardini pubblici, ripulire i muri, tenere in ordine le sponde dei fiumi e dei torrenti. Insomma, occorre un’idea più articolata della punizione, che riduca gli ingressi in carcere e che aiuti a ricostruire un rapporto tra detenuto e società. E poi non dobbiamo dimenticare che nelle carceri la polizia penitenziaria fa la stessa vita dei detenuti a volte con qualche rischio in più».
È un aspetto che troppo spesso viene trascurato.
«Assolutamente sì. Oltretutto, agli agenti della polizia penitenziaria non sempre sono fornite la preparazione e le garanzie adeguate».
C’è un difetto di formazione professionale.
«Ma se un governo, comunque si chiami, segue l’utopia repressiva è chiaro che non si preoccuperà della formazione del personale penitenziario. Se manca la formazione professionale necessaria, l’unica risposta al comportamento indisciplinato del detenuto è la violenza. Il carcere diventa un’arena di scontro tra poteri violenti. Il conflitto fra la polizia penitenziaria e i detenuti diventa inevitabile quando da una parte manca la preparazione e dall’altra si è privati della dignità».
Come spiega che dopo quasi dieci anni, da un tentativo di depenalizzazione (governo Renzi) si sia passati all’introduzione di nuovi reati, come dimostra proprio questo disegno di legge che ne introduce un’altra ventina?
«Ci sono culture politiche diverse (le rispetto tutte, sia chiaro). Quella di destra è incentrata su un’idea della repressione come condizione per ristabilire l’ordine di una società: è una visione che riscontriamo in tante parti del mondo, non solo in Italia».
Che effetto avrà l’aumento delle pene sul funzionamento della giustizia?
«Se non ho contato male, sono state introdotte negli ultimi due anni circa quindici nuove ipotesi di reato. Più crei nuovi reati, più aumenta il lavoro dei magistrati e, alla fine, crescono i tempi della giustizia. I tribunali non sono un pozzo senza fondo. Occorre un rapporto equilibrato fra la quantità di norme incriminatrici e le possibilità di risposta. Questo equilibrio è saltato da tempo».
Perciò qual è il suo giudizio complessivo sul provvedimento?
«Un giudizio complessivo è difficile, perché un paio di norme sono positive, Cito, ad esempio, l’interdittiva del prefetto nei confronti di azienda sospettata di intrattenere rapporti con la mafia. Con questa legge il prefetto può evitare di incidere su quei cespiti che danno all’imprenditore la possibilità di vivere: sinora si bloccava tutto e il destinatario del provvedimento, anche in assenza di condanna, non aveva i mezzi per vivere. Altre norme positive sono quelle sullo sgombero delle abitazioni occupate abusivamente».
Anche perché è in gioco il diritto di proprietà.
«È un diritto di civiltà. Se una casa è occupata abusivamente, le forze dell’ordine devono avere la possibilità dello sgombero forzato. Abbiamo avuto, nelle periferie, casi di povera gente che, uscita di casa, al ritorno l’ha trovata occupata e senza riuscire a mandare via gli abusivi».
Veniamo alle norme che non vanno bene.
«Tutto il resto, la parte prevalente, è un inno alla punizione. Siamo davanti all’utopia repressiva di cui si diceva prima».
Ma la sicurezza è necessaria.
«La sicurezza è necessaria per tutti e soprattutto fuori della Ztl, per le persone più deboli. Ma l’eccesso di repressione provoca violenza e insicurezza. Dobbiamo difendere i più deboli. Ma occorrono leggi di carattere sociale che aiutino la vita dei più deboli. Anche questa è sicurezza».
È un tema che a maggior ragione dovrebbe trovare sensibile anche il centro-sinistra.
«Io penso che la sicurezza dei cittadini, gestita secondo la Costituzione, debba essere un tema della sinistra. Mi permetta un ricordo, diciamo così, archeologico che risale all’inizio degli anni Ottanta. Quando ero responsabile della sezione giustizia del Pci, in una riunione di 40-50 persone con i quadri di partito, dissi che la sicurezza, riguardando soprattutto i ceti più deboli, era un tema di sinistra. All’inizio ci fu un po’ di sconcerto. Poi cominciammo a percorrere quella strada».
Veniamo alla libertà di manifestazione. Fin dove arriva? È giusto sanzionare penalmente i blocchi stradali, praticati negli ultimi tempi soprattutto dagli ecologisti di Ultima Generazione?
«Gli ecologisti che bloccano le strade provocando seri problemi alla circolazione fanno male, ma non dobbiamo dimenticare il problema che sollevano. Davanti ad un fenomeno sociale non deve esserci solo un atteggiamento punitivo. Non si governa con il manganello alla cintola. Questi ragazzi pongono, in modo sbagliato, un problema giusto, il dissesto ambientale. Bisogna dialogare, cercare di capire e di capirsi. In sintesi: il dialogo è la premessa dell’ordine. È la contrapposizione violenta a creare il disordine».
L’aumento delle pene è un vero deterrente? Si tratta di una vecchia discussione.
«Non è un deterrente. Chi commette un reato non si preoccupa della pena».
Uscire anticipatamente dal carcere se negli ultimi anni il detenuto dimostra una buona condotta è una strada da percorrere maggiormente, sconfiggendo le posizioni securitarie?
«Sono d’accordo. È una scommessa da fare. Poter uscire dal carcere anticipatamente apre una speranza, può aiutare la persona a rispettare la società».
Ma basta?
«Non basta. Occorre introdurre cambiamenti già nei penitenziari partendo da un un punto di fondo, che è il lavoro produttivo. Chi lo ha praticato in carcere, quando esce, difficilmente è recidivo. Le statistiche sono chiare: tornano a delinquere soprattutto coloro che nei penitenziari non hanno lavorato. Talvolta mi capita di visitare i penitenziari e tempo fa mi ha colpito un detenuto sardo del Due palazzi di Padova. Aveva un paio di ergastoli sulle spalle, quindi davanti a sé una vita da scontare in carcere. Mi mostrò il 740, perché lavorava e pagava regolarmente le tasse. Mi disse: questo è il mio certificato di dignità, grazie a un lavoro che mi è stato dato dal carcere, non dalla vita libera».
Dunque, cosa pensa della fine anticipata della pena ?
«Dobbiamo pensare anche ad un indulto (per l’amnistia non ci sono le condizioni). L’indulto, altre misure, come l’uscita anticipata per buona condotta, e nuove politiche per incentivare il lavoro produttivo in carcere possono avviare una svolta verso una concezione civile».