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La battaglia degli italiani per diritto
Il successo della raccolta firme sul referendum per dimezzare i tempi di ottenimento della cittadinanza è solo un primo passo. Perché la leggedel 1992 è piena di contraddizioni
Tutti i miei compagni mi chiedevano suggerimenti su chi votare, conoscevo tutti i programmi a memoria. Poi loro andavano alle urne e io restavo a casa perché non avevo la cittadinanza e non potevo votare», racconta Daniela Ionita, nel nostro Paese da 20 anni, ma italiana da pochi giorni. È la presidente di Italiani Senza Cittadinanza che si batte per modificare la legge 91/1992 sul riconoscimento della nazionalità.
Assieme a +Europa, ha lanciato la raccolta firme per portare da 10 a 5 anni l’obbligo di residenza legale per ottenere la cittadinanza attraverso il referendum abrogativo. La campagna ha superato la soglia delle 500 mila firme necessarie per la consultazione della prossima primavera e ha ricevuto il supporto di personalità come Alessandro Barbero, Ghali,Zerocalcare e Roberto Saviano e delle forze politiche, Pd, Verdi, Sinistra e Italia Viva, della società civile con organizzazioni come ABuonDiritto.
Secondo l’Osservatorio internazionale sulla cittadinanza, nell’Unione europea non esiste un diritto di cittadinanza per nascita (ius soli) illimitato, ma circa il 31% degli Stati ne applica forme temperate. L’Italia è uno dei Paesi dove la cittadinanza si acquisisce attraverso lo ius sanguinis, “il diritto di sangue”, ovvero in base alla nazionalità dei genitori. Un bambino nato in Italia da genitori non italiani o arrivato nel Paese in giovane età non è automaticamente italiano. Per diventare cittadino e acquisire una serie di diritti, come votare o partecipare a concorsi pubblici, i cittadini devono passare attraverso una complessa procedura.
Con il referendum si agisce in particolare sull’elemento della permanenza legale nel territorio, «un punto di partenza» per l’obiettivo più esteso di uno ius soli completo e che assieme a requisiti come il reddito minimo, è tra gli ostacoli maggiori della legge in vigore. Secondo i promotori della campagna a beneficiare della modifica sarebbero 2,5 milioni di persone.
Il dibattito si è riaperto dopo l’iniziale spinta post-Olimpiadi del ministro e segretario nazionale di Forza Italia Antonio Tajani per lo ius scholae. «Guai se abbiamo paura di concedere diritti meritati: saremmo un centrodestra oscurantista», ha detto, legando così il diritto al merito. «Al momento, la cittadinanza non è un diritto, ma qualcosa di concesso. Ma i diritti non si guadagnano, i diritti devono essere riconosciuti», ribatte Kwanza Musi Dos Santos, co-fondatrice di QuestaèRoma, una ong italiana che sensibilizza sulla decolonizzazione e sulle comunità marginalizzate: «Continuiamo a fare campagna per una riforma della cittadinanza, perché c’è un problema strutturale». Secondo il Migrant integration policy index, l’Italia occupa il tredicesimo posto su 16 Paesi dell’Europa occidentale per facilità di concessione della cittadinanza. «Sono passati trent’anni dalla promulgazione della legge 91/1992, ma l’Italia di oggi con le migrazioni degli ultimi vent’anni non è più quella di allora», prosegue Kwanza Musi Dos Santos.
«Quando ho presentato i documenti, mi hanno riso in faccia», ricorda Xhoi Musaj. Nata in Albania, si è trasferita in Italia con la sua famiglia a 9 anni. Durante la crisi economica suo padre perde il lavoro e torna in Albania, per poi ristabilirsi in provincia di Taranto dove aveva lasciato la sua vita in sospeso in attesa di una stabilità economica. La domanda è stata respinta a causa del requisito della residenza continuativa, che obbliga le persone a rimanere stabili nel territorio italiano per 10 anni. «È come se quegli anni della mia vita non fossero mai esistiti – spiega Xhoi Musaj – ora è una questione di principio. Aspetterò e farò nuovamente domanda. Non mi sposerei mai solo per ottenere la cittadinanza, come tutti mi dicono di fare. È un mio diritto e lo pretendo». La necessità di restare in Italia per non interrompere la residenza ostacola anche opportunità come l’Erasmus, che per molti studenti italiani sono scontate.
Ma qual è il costo di un diritto? I circa tremila euro necessari sono un primo ostacolo. «Non ho potuto fare domanda prima per ragioni economiche. L’ho fatto a 21 anni. È una grande spesa e io ero solo una studentessa – spiega Daniela – la legge è classista, anche per questo lottiamo per cambiarla». La maggior parte dei documenti da raccogliere per la domanda devono essere reperiti nei Paesi d’origine dei genitori, tradotti e autenticati. Luoghi dove alcune persone non sono mai nemmeno state. «Ho dovuto ritirare il mio certificato penale in Romania, ma avevo solo sette anni quando l’ho lasciata – racconta Daniela – alcuni, poi, provengono da Paesi dove non esiste un ente legale che possa fornire i documenti e questo blocca tutto».
Ma i costi non esauriscono gli ostacoli. Perché c’è anche il reddito minimo richiesto dalla legge. «Ho fatto domanda nel 2014 e dopo sei anni la mia richiesta è stata respinta perché consideravano il mio reddito insufficiente», spiega Ihsane Ait Yahia. Lei, 31 anni, è una consulente extragiudiziale per l’immigrazione. In Italia è arrivata dal Marocco quando di anni ne aveva sei. «Mi avevano proposto di candidarmi alle elezioni di Reggio Emilia, ma ho dovuto rifiutare perché non sono riconosciuta come italiana», aggiunge. Sulla questione del reddito insiste anche Daniela: «Il requisito di reddito non considera che le persone con un background migratorio hanno più difficoltà nel mercato del lavoro». E per molti questo dimostra il carattere «concessorio» della legge italiana sulla cittadinanza, disposta a integrare e a riconoscere la nazionalità italiana solo a coloro che sono già economicamente autosufficienti, piuttosto che considerare i bisogni del richiedente. Ihsane è in Italia ormai da 25 anni e a dicembre sua figlia nascerà a Reggio Emilia come cittadina non italiana. «Mi sento sia italiana sia albanese – dice Xhoi Musaj – voglio che la mia identità venga riconosciuta, è come se non essere cittadina italiana limitasse la mia persona. Non posso votare, mi sento esclusa. In questi anni, protestando nelle strade mi sono sentita davvero di esistere. Come se avessi finalmente una voce». Ma l’attivismo non è esente da insidie collaterali per chi è in attesa della cittadinanza: «Più di 600 richieste, secondo quanto risulta da un’indagine svolta da un team legale – aggiunge Xhoi – sono state respinte perché i richiedenti avevano partecipato a proteste, anche se pacifiche». E con l’aria che tira dopo il primo sì al ddl Sicurezza, anche questo dato non è da sottovalutare.