Fare politica è mettersi in gioco totalmente, dice Marco Cappato, l’erede del leader delle battaglie civili, che racconta in uno spettacolo in scena a Milano l’11 novembre

La parlata è ponderata, dilatata, precisa; tra le tante, insiste sull'importanza del «dialogo», distingue tra «motivazioni teoretiche e pratiche». Non serve il test del Dna (politico) per capire che Marco Cappato, 53 anni, è figlio spirituale dell'altro Marco dissidente della politica italiana, cioè Pannella. Il resto – il loro rapporto, l'eredità del Capo, le battaglie dei radicali oggi – è in Da Marco a Marco, uno spettacolo in scena l'11 novembre a Milano, al Teatro degli Arcimboldi. L'erede designato, ammesso ce ne sia uno, scherza sul vecchio maestro scomparso nel 2016: «Sarà una cosa ironica ed esile, da cinque o sei ore».

Ma non un comizio.

«Né una lezione. Sarà uno spettacolo politico, Pannella ha dimostrato che pubblico e privato sono legati. Ma non m'interessa annoiare con battaglie, divorzio, aborto né fare proseliti su quelle che, credo, vanno affrontate oggi. Al di là della memoria in sé, che ho paura si perda, parlerò dell'uomo, dell'attualità del metodo».

Cioè?

«Quel suo metterci la faccia. La politica per lui non era mestiere, chiedeva del coraggio: stare in discussione con sé stessi, rischiare, restare fuori dalle aule; usare il corpo, che è tutto nelle attività di disobbedienza civile e non solo. La non-violenza parte lì. Negli anni Settanta si era fatto arrestare per sensibilizzare sull'uso delle droghe leggere; tanto tempo dopo, l'ho fatto anch'io».

Che si prova in quel momento?

«Ci si sente vivi, con uno scopo. Pannella citava Rimbaud, la sua “ragionata sregolatezza di tutti i sensi”. Odiava, per lui, la definizione di “poeta maledetto”: quell'osare era la felicità, il manifesto del Partito Radicale tutto».

Diceva che erano gli altri politici, gli infelici.

«Ci accusano di sentirci martiri, ma per noi la lotta è gioia. Si va per gradi: prima si familiarizza con un'idea, solo dopo si capisce se occorre mettere in gioco sé stessi per difenderla. In mezzo, migliaia di sfumature: non serve essere attivisti, il “metodo Pannella” serve nella vita quotidiana; quando decidiamo di non stare zitti davanti a un torto, nelle scelte che compiamo la mattina alzandoci dal letto, in amore, al lavoro. In ballo, per tutti, c'è la democrazia, che è il filo che lega le nostre storie».

Ma allora perché Pannella e i radicali sono sempre in minoranza?

«Per un malfunzionamento della democrazia stessa. Magari alcune battaglie sono state di minoranza agli inizi, ma sono diventate di tutti. Sono i partiti a essere in ritardo, a non rispondere alle esigenze, a volte, della stessa base di elettori. L'arte, al contrario, arriva prima: prenda The Room Next Door, l'ultimo film di Almodóvar sull'eutanasia».

Per questo ha scelto il teatro?

«Sono sfiduciato verso la politica, voglio sperimentare altre forme di attivismo. È stato un decorso lento, da quando nel 2009 non superai il quorum ho cominciato un percorso fuori dalle aule, come già Pannella. Non sono iscritto a nessun partito, nonostante la vicinanza ai radicali. E non ho più ricevuto inviti da talk show, ma tanti da podcast e strumenti nuovi. Lì ho trovato un pubblico interessato, affettuoso. Spero non ci vedano arrivare neanche stavolta: la politica è sempre distratta».

Pannella faceva «politica da marciapiede», ma come lei era anche icona pop. Sapete costruivi un'egemonia culturale.

«Sì, ma non è un'egemonia vera: la cultura non è il fine, come per gli altri partiti; è il mezzo. E lo stesso vale per politica e potere. Per questo ha funzionato. Nel Sessantotto si diceva: “La fantasia al potere”. Bene, Pannella rifiutava perfino la fantasia – ché se si tratta di lotte non violente è tutto, c'è sempre da inventarsi qualcosa – se fosse salita al potere».

C'è un Pannella che non abbiamo visto?

«Abbiamo convissuto per anni, dalle trasferte a Bruxelles ai referendum, allontanandoci solo verso la fine. Oltre che aperto al dialogo, era dolce e sensibile. Citava i “Do di petto”: come i tenori aveva momenti che bucavano lo schermo – gli scioperi della fame, le trovate sceniche, l'urina bevuta in diretta tv – e che tutti si ricordavano; ma a valle c'erano pensieri articolati, un'umanità profonda. In una registrazione che farò sentire dal palco, in mezzo a video di repertorio, dice: “Io non protesto, propongo”. Impazziva sapendo che le sue azioni erano ritenute “proteste”: pensava a un equivoco».

In cosa siete diversi?

«Siamo figli del nostro tempo. Lui, dell'epoca dei grandi partiti e dei leader, quindi era comunque una figura forte, centrale. La mia generazione, per inclinazione, mette avanti i diretti interessati, come i malati stessi nel caso dell'eutanasia».

Ricorda il vostro primo incontro?

«A Monza, casa mia, a novembre del 1992, in piena Tangentopoli. Mio fratello era candidato con la Lista Pannella, venne per un comizio e mi colpì. Studiavo Economia Aziendale, non appena ci fu l'occasione, in primavera, andai al congresso radicale a Roma, tra militanti sgarrupati e ospiti delle istituzioni. Parlavano di agire tutti allo stesso modo, alla stessa ora, in ogni parte del Pianeta. Mi si aprì un mondo: che avevo fatto finora, io, studente di Economia? Avevo perso tempo, ecco cosa. Fermai Marco e glielo dissi».

E lui?

«Mi rispose di non preoccuparmi, citò la “lenta continuità che ci attraversa”. Ogni cosa ha il suo tempo, tutto si muove anche se non ce ne rendiamo conto. E ciò che avevo fatto prima mi aveva portato a essere lì, in quel modo, in quel momento. Per Marco la rivoluzione non era di piazza, ma quella dei pianeti che girano. È un altro insegnamento, davvero, per la vita di tutti i giorni».