Gli Stati Uniti sono spesso intervenuti per rovesciare governi o capi di Stato non graditi. Ma con esiti sempre disastrosi che si prolungano.E l’Iran è l’esempio più rappresentativo

Da Cuba alla Libia: quei cambi di regime finiti male

Chissà quale dei (pochi) consiglieri presi sul serio da Donald Trump e Benjamin Netanyahu l’avrà suggerito, ma rinunciare al cambio di regime a Teheran è stata una delle (pochissime) decisioni sagge della guerra dei Dodici giorni fra Iran e Israele conclusa dall’intervento americano. I precedenti di tentato “regime change” sono tutti disastrosi: dal fallito tentativo di disarcionare Fidel Castro con lo sbarco nella Baia dei Porci a Cuba nel 1961 alla disfatta del Vietnam dopo una guerra durata vent’anni (1955-1975), da Salvador Allende ucciso nel Palacio de la Moneda nel 1973 ai talebani afgani tornati al potere nel 2021, da Saddam Hussein impiccato nel 2006 fino a Muammar Gheddafi linciato nel 2011. Ogni intervento brutale alla ricerca del cambio di regime condotto dagli americani dopo la Seconda guerra mondiale ha lasciato sul terreno situazioni molto peggiori di quelle contro le quali si era agito, con riflessi disastrosi che ancora oggi proiettano ombre sinistre e catene di eventi tragici e luttuosi.

 

Il precedente più rappresentativo di questa capacità degli Stati Uniti di ficcare nei guai loro stessi e intere aree del globo – di qualsiasi colore politico fosse l’amministrazione in carica – riguarda proprio l’Iran. È stato il primo di una lunga serie di tentativi di regime change apparentemente riusciti e invece sfociati solo nell’odio per l’America e per l’intero Occidente, oltre che nel sangue di migliaia di innocenti. Un viaggio a ritroso nella storia, alla metà del secolo scorso, aiuta a comprendere la cronaca di questi giorni. Nell’agosto 1953 un golpe in piena regola, il primo di una lunga serie ordita dalla Cia (creata nel 1947), nell’occasione in collaborazione con il servizio segreto britannico MI6, rovesciò il governo democraticamente eletto di Mohammed Mossadeq, capo del partito di maggioranza Fronte Nazionale e diventato premier a Teheran appena due anni prima.

 

L’Iran, l’antica Persia ridenominata nel 1935, stava intraprendendo una serie di riforme progressiste: smantellamento dei grandi latifondi; coraggiose misure sul fronte dei diritti umani, dal divorzio al voto femminile; agevolazioni alla creazione di imprese; spinta all’inurbamento; partecipazione agli utili degli operai. Fino alla goccia che aveva fatto traboccare il vaso: Mossadeq nazionalizzò la compagnia energetica Anglo-Iranian Oil Company, che si distingueva per corrispondere al popolo iraniano, legittimo proprietario dei pozzi petroliferi, appena il 13 per cento dei profitti. La Aioc (oggi Bp) era una delle sette sorelle (con Exxon, Mobil, Chevron, Gulf, Texaco e Shell) con cui condivideva i poco democratici metodi di ripartizione degli utili. Erano gli anni delle analoghe battaglie di Enrico Mattei, peraltro in stretto contatto con Mossadeq e vittima di un misterioso incidente aereo nel 1962.

 

I due servizi segreti, l’americano e l’inglese, organizzarono insieme il golpe a Teheran squadernando tutto il loro catalogo diventato popolare negli anni successivi: come in un romanzo di John le Carré o Ian Fleming (che era stato un vero agente del controspionaggio di Sua Maestà), inserirono infiltrati negli uffici governativi, nei giornali, nei partiti, nella magistratura, nelle forze dell’ordine. Partì una raffica di attentati e omicidi finalizzati a far capire agli iraniani che il loro Paese non era più sicuro; sulla stampa locale furono veicolati – dietro cospicui pagamenti occulti agli editori – articoli dello stesso tono, per le strade delle città iraniane apparvero cartelloni di semi-sconosciute forze di opposizione a Mossadeq che chiedevano le dimissioni del primo ministro. Alla fine, gli arresti (e spesso l’esecuzione sommaria) contro ministri e dirigenti del governo iraniano scattarono la notte di Ferragosto del 1953.

 

Non fu un’operazione semplice: inizialmente i lealisti di Mossadeq reagirono con la stessa moneta, tanto che la Cia stava per rinunciare all’operazione con il Paese ormai precipitato nella guerra civile. Invece pochi giorni dopo, il 19 agosto, l’ennesimo colpo di scena: con un’ultima spallata, un giornalista che era in realtà un agente della Cia si mise ancora una volta a capo di una folla montata ad arte e stavolta la gente rispose. Subito carri armati e milizie, ovviamente sempre mosse dalla Cia, tornarono alla carica contro Mossadeq e si appropriarono nuovamente delle strade della Capitale. Riuscirono ad arrestare il primo ministro, che fu processato e mandato in esilio a vita in una cittadina a 500 chilometri da Teheran. Lo scià Mohammad Reza Pahlavi fu richiamato dal suo esilio in Italia, dove era fuggito qualche mese prima alle avvisaglie che qualcosa andava storto, e si riappropriò della corona che aveva cinto la prima volta nel 1941.

 

L’Iran, nei disegni americani e britannici, era e doveva restare una monarchia costituzionale sul modello inglese, con un re (lo scià) e un governo esecutivo. Ma nella nuova versione lo scià doveva esercitare un ruolo di maggior presenza e forza decisionale. La Gran Bretagna, una volta risolto a favore della sua compagnia il problema dei profitti, si tirò indietro e la Cia rimase padrona del campo, concentrata su quella che era per gli Usa la questione centrale: evitare che l’Iran cadesse nella sfera sovietica. Si era nel pieno della Guerra fredda e del maccartismo sul suolo americano. Per di più in Iran c’era ai tempi di Mossadeq un forte partito comunista, il Tudeh, che collaborava attivamente con il primo ministro nelle sue battaglie contro le compagnie petrolifere angloamericane. Così, l’intelligence scelse un oscuro generale come nuovo premier, Fazlollah Zahedi, ne limitò l’autonomia e per i 26 anni successivi pilotò lo scià, che prese nelle sue mani tutto il potere in un percorso di crescente dispotismo e violenza, con tanto di polizia segreta (la famigerata Savak) e il contorno di arresti pretestuosi, torture, esecuzioni sommarie. Tanto che una nuova rivoluzione, stavolta condotta dal clero sciita, portò al potere l’ayatollah Ruhollah Khomeini nel febbraio 1979. Reza Pahlavi fuggì al Cairo, dove morì l’anno dopo. Intanto a Teheran la crisi dei 52 ostaggi americani catturati dagli “studenti della rivoluzione”, durata dal novembre 1979 fino al gennaio 1981, segnava la fine di qualsiasi ipotesi di ripresa del dialogo con l’America.

 

La Cia, malgrado le incertezze e il sostanziale fallimento finale, ha preso a modello il golpe a Teheran per tutti i successivi cambi di regime in ogni continente, con conseguenze a catena sistematicamente catastrofiche. In questi 72 anni dal golpe di Mossadeq i rapporti fra Teheran e Washington si sono progressivamente deteriorati senza che mai s’interrompesse la corsa verso l’abisso. Fino a Trump, ai suoi ordigni “bunker buster” e ai suoi jingle «bombing Iran», in un crescendo di paure e angosce degno di “Apocalypse Now”. «Tante cose sono cambiate in quasi tre quarti di secolo, eppure la tentazione americana di cercare un regime change rimane in sottofondo», riflette Stefano Silvestri, esperto di geopolitica, già sottosegretario alla Difesa, direttore editoriale di Affarinternazionali.it. «Trump l’ha formalmente escluso, salvo poi riprendere l’argomento nelle sue tante e contraddittorie dichiarazioni estemporanee. Come ha fatto all’indomani del bombardamento su Fordow solo perché glielo aveva suggerito Mark Levin, il più radicale dei suoi consiglieri, proveniente da Fox News come Pete Hegseth, il ministro della Difesa, anzi della Guerra come ha indicato lo stesso Trump». La lezione di Mossadeq, insomma, ancora non è stata memorizzata. E storie come quella del 1953 tornano attuali con il tycoon al comando.

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