Risico delle banche
Solo i grandi si affrancano dalla politica
Vent’anni dopo la celebre battuta “abbiamo una banca?”, i partiti non vogliono perdere quella che considerano un'importante leva di potere, o almeno di influenza
L'Europa ha bisogno di banche più forti e più grandi per sviluppare la sua economia e aiutarla a competere contro gli altri maggiori blocchi economici». A dirlo è stato Andrea Orcel, il boss di Unicredit che, dopo avere lanciato un'offerta per l'acquisto della tedesca Commerzbank alla fine dell'estate, la settimana scorsa ha annunciato di volere comprare il Banco Bpm in Italia, consolidando la sua fama di manager aggressivo. In realtà la Commissione europea negli ultimi anni ha più volte ribadito l'urgenza di crescere per gli istituti di credito di un'Europa che, compressa ad Ovest e a Est da colossi finanziari, farà fatica a sopravvivere economicamente, e dunque politicamente, senza capitali di gran lunga superiori a quelli di cui dispone. L'americana JP Morgan è la più grande delle prime dieci banche europee messe insieme. Come finanziare complesse e costosissime transizioni verdi e digitali senza soldi, o meglio senza la capacità di offrire ai privati montagne di denaro in prestito? I soldi pubblici da soli, ormai è chiaro, non bastano. E, complici guerre e conflitti commerciali, non basteranno nemmeno in futuro. Così nel mirino, visto che quelle piccole non darebbero i risultati cercati, sono finite soprattutto le banche di medie dimensioni, solide e ben radicate sul territorio, ancor meglio se dotate di una proficua attività di gestione del risparmio (come Bpm con Anima).
Ma la settimana scorsa all'annuncio di Unicredit dell'offerta pubblica di scambio sul Banco Bpm, tradizionale fortino leghista, gran parte del mondo governativo ha alzato gli scudi, brandendo perfino quel “golden power” creato per bloccare acquisizioni che minaccino la sicurezza nazionale. D'altronde lo scorso settembre era stata Berlino a fare la voce grossa quando Orcel aveva bussato alla porta della ricca ma inefficiente Commerzbank, gioiello della capitale tedesca. Allora come oggi la politica punta il dito sui posti di lavoro che saranno persi, sullo sradicamento delle banche dal territorio su cui sono cresciute e che alimentano, in qualche caso anche quando non dovrebbero. Ma poi la questione cruciale resta squisitamente politica: più un'istituzione di diritto privato, a maggiore ragione una banca, diventa grande e meno deve rispondere all'influenza della politica su un determinato territorio. Basta guardare a colossi come Google o Apple o semplicemente a JP Morgan. Una classe politica europea che sempre più plaude a regole e attori locali non vuole perdere quella che considera un'importante leva di potere, o almeno di influenza. Sono passati quasi vent'anni dalla celebre domanda «abbiamo una banca?» rivolta al telefono dall’allora segretario dei Ds Piero Fassino a Giovanni Consorte, quando la rossa Unipol stava per comprare Bnl, poi acquisita da Bnp Paribas: la logica è rimasta la stessa. Il governo Meloni avrebbe infatti spinto per la creazione di un terzo polo italiano costituito da Banco Bpm e Monte dei Paschi di Siena, che avrebbe portato l'istituto toscano salvato dallo Stato dopo il suo rovinoso acquisto di Antonveneta nel 2008, nella compagine di interessi del centro-destra, con il sostegno di Gaetano Caltagirone, già azionista di MpS.
Tale logica non vale solo per l'Italia e per la Germania. A dare avvio al neorisiko bancario europeo era stata Bbva, la seconda banca spagnola, quando nel maggio scorso aveva lanciato un'offerta ostile mista, in azioni e denaro, su Banco de Sabadell, il quarto istituto di credito della Spagna e banca di riferimento dei ricchi imprenditori catalani. Approvata dalla Bce e dalla Commissione europea, l'offerta è in attesa del via libera dell'equivalente spagnolo dell'Antitrust. Ma il premier Pedro Sanchez vorrebbe porre il veto alla fusione (lo può fare) a causa dell'impatto negativo che – dice – potrebbe avere sulla sua regione. Con un governo traballante, minacciato dalla destra e dall'estrema destra, non può permettersi di perdere l'appoggio dei partiti indipendentisti della Catalogna. Così pur non potendo impedire l'acquisizione della banca catalana, potrebbe renderla economicamente svantaggiosa, impedendone le economie di scala risultanti da una fusione. Almeno fino a quando i socialisti resteranno al potere. Invece, come Bruxelles, anche i mercati sono sostenitori di questi recenti disegni di fusione. L'agenzia di rating Moody's non solo ha appena confermato il giudizio positivo (Baa3) su Unicredit, ma sostiene che l'istituto potrebbe affrontare entrambe le fusioni senza che venga modificato il suo profilo di rischio. Anzi, l'acquisizione di Commerzbank controbilancerebbe l'eccesso di italianità che le conferirebbe il Banco Bpm ed espanderebbe le risorse liquide e i canali di finanziamento sul mercato tedesco, considerato più solido di quello italiano.
Il settore bancario è in consolidamento e guarda con fiducia a un 2025 infuocato, quando la riserva di utili accumulati dalle banche durante anni di vacche grasse potrebbe essere investita in crescita. «Ormai è partito un percorso che porterà a integrazioni successive», ha dichiarato Carlo Messina, consigliere delegato di Banca Intesa, buon amico di Orcel al di fuori della competizione professionale. Messina sa bene quel che dice: l'ops di Orcel è molto simile a quella che lui fece su Ubi nel febbraio di quattro anni fa, e che chiuse nell'ottobre dello stesso anno per poi fondere Ubi in Intesa San Paolo l’anno successivo. A leggere i passi che portarono a quell'acquisizione di successo, è chiaro che almeno su un punto l'offerta di Unicredit dovrà cambiare, dando ragione all'amministratore delegato di Bpm Giuseppe Castagna: il prezzo di scambio. Quello offerto da Unicredit è basso, al di sotto dei 7 euro su cui veleggiano adesso le quotazioni di mercato. Ma, dicono fonti interne all'istituto di piazza Gae Aulenti, che, come accadde nel caso di Ubi Banca, una revisione potrebbe essere nelle carte, magari tramite una maggiorazione in denaro, una volta convinti gli azionisti sui vantaggi dell'operazione. Non a caso Orcel è già in trattativa con la francese Credit Agricole, maggiore azionista con il dieci per cento di Bpm e controllante di Amundi, la più grande società europea di risparmio gestito con cui Unicredit collabora dai tempi della cessione della società di gestione Pioneer. Dunque Germania, Italia, Francia. La crescita di Unicredit - come quella delle altre banche europee di medio-grandi dimensioni - anche quando gioca su piazza nazionale, non potrà prescindere dalla logica europea in cui, volente o no, s'inquadra qualsiasi operazione di rilievo. In un mondo di Golia, a dispetto di ogni velleità sovranista, la fionda di Davide non basta più.