A Napoli si continua a sparare ma anche a riciclare miliardi di euro attraverso sistemi informatici avanzatissimi. Mentre la magistratura continua a perdere credibilità, dal caso Palamara all’inchiesta di Perugia. Da Nordio al Csm il procuratore capo non risparmia le critiche in questa intervista all’Espresso

Napoli torna a sparare, come in un poliziottesco anni Settanta. È il primo livello del Sistema, nome moderno di quella camorra che Nicola Gratteri confessa di studiare «da allievo di scuola guida» dopo una vita dedicata a combattere e a studiare la Società, nome antico della ‘ndrangheta. Da calabrese, il procuratore della Repubblica di Napoli in carica dal 20 ottobre 2023 mostra meraviglia per la banalità degli omicidi di strada con i quali «la terza generazione dei camorristi al 41 bis cerca di accreditarsi». Da calabrese, ha imparato che i livelli sono la tridimensionalità delle mafie. Se non si investiga quella, si distribuiscono ergastoli alla manovalanza. Ecco quindi che il suo esordio, a quattro mesi da una nomina travagliata, contestata da Magistratura democratica e dagli avvocati della camera penale partenopea, è avvenuto al livello superiore, con un’indagine su miliardi di euro riciclati fra la Campania e le capitali baltiche di Riga e Vilnius. Al di là degli aspetti tecnici dell’operazione, che hanno rivelato la dimestichezza dei criminali con sistemi informatici di marca israeliana in genere accessibili soltanto alle agenzie di intelligence, l’inchiesta napoletana è una sana stonatura in un quadro dove ci si è rassegnati a una legalizzazione de facto della cocaina e, a maggior ragione, all’impossibilità, all’inutilità e all’antieconomicità di perseguire il riciclaggio di denaro sporco.

 

La cronaca nera ha seguito lo spunto degli investigatori napoletani. Martedì 12 marzo è stato assassinato nel parcheggio di un centro commerciale di San Giovanni a Teduccio l’ingegnere Salvatore Coppola, ex collaboratore di giustizia che si era rifatto una vita professionale nel quartiere chic del Vomero. Per adesso prevalgono le piste della vendetta o del regolamento di conti nato dai nuovi affari di un professionista che aveva illustrato proprio alcuni meccanismi di riciclaggio dei clan della periferia orientale della città, la stessa zona dove ha sede la Procura della repubblica. Lì, nell’angolo estremo del Centro direzionale, L’Espresso ha incontrato Gratteri, mercoledì 13 marzo.

 

Che lezione si ricava dall’inchiesta napoletana sul riciclaggio?
Per iniziare, stiamo parlando di una macchina perfetta, basata a Napoli, in Lituania ed Estonia, messa al servizio di clienti soprattutto lombardi, ma anche laziali e campani. Per ogni operazione venivano impiegati centinaia di cellulari e di schede telefoniche, con una tecnologia israeliana che le forze di contrasto si sognano. L’insegnamento principale è che ci sono vari livelli di camorra. Il primo è quello dei ragazzini che sparano, una cosa che in Calabria è inconcepibile perché provocherebbe la reazione in autotutela della stessa criminalità organizzata. Al secondo livello ci sono i gruppi dell’imprenditoria camorristica, già molto ricca, che la droga non la tocca più e che però deve giustificare il suo benessere finanziario investendo nelle catene di ristoranti a Milano, Roma o in Germania, mandando i figli a studiare nelle scuole professionali, facendone chef e direttori di sala. Il terzo livello padroneggia i sistemi avanzati del riciclaggio e il dark web con un’alta specializzazione. Per contrastare il gradino superiore servono giovani appassionati, preparati e pagati meglio perché i migliori di loro lasciano la pubblica amministrazione dopo pochi anni per andare a guadagnare molto di più nel privato.

 

Non sembrano tempi di vacche grasse per la pubblica amministrazione. Le sembra possibile lanciare una campagna acquisti?
L’inchiesta napoletana sul riciclaggio, che era già impostata quando sono arrivato, ha portato a un sequestro di 280 milioni di criptovalute già convertite in euro e messe nel fondo unico della giustizia. Quando il ministro Carlo Nordio dice che 170 milioni di costi sono eccessivi, a Napoli abbiamo dimostrato che con una sola operazione ci siamo ripagati le spese.

 

Dagli anni Novanta, quando il riciclaggio sembrava un tema fondamentale del contrasto al crimine organizzato, sempre meno inchieste affrontano il tema. È una difficoltà dovuta alla vecchia regola per cui le tecniche dei riciclatori sono sempre un passo avanti? Oppure c’è un tema di forze insufficienti fra magistratura e polizia giudiziaria?
Da dieci anni a questa parte, nei libri che ho scritto con Antonio Nicaso abbiamo, più volte, denunciato le difficoltà intrinseche alla lotta ai capitali mafiosi, soprattutto a causa delle asimmetrie normative che consentono a chi deve giustificare le ricchezze accumulate con i traffici illeciti di trovare paesi dove si incontra meno resistenza, dove le legislazioni sono meno affliggenti. In un mondo sempre più interconnesso, non possono esserci santuari. È opportuno creare un fronte comune di lotta per evitare che i soldi della criminalità organizzata entrino con impressionante facilità nell’economia legale. È quello che, purtroppo, succede oggi. I soldi delle mafie non vengono respinti, anzi stanno diventando sempre più una componente strutturale del capitalismo finanziario. Servono più risorse, ma soprattutto c’è bisogno di una nuova consapevolezza, soprattutto a livello politico e quindi normativo.

 

In una fase di crisi economica esiste davvero nella politica l’esigenza di tenere fuori dal sistema trilioni di euro?
Il problema ruota ovviamente attorno a questo quesito, a cui non posso essere di certo io a dare una risposta. E quello che mi chiedo da tempo, come le ho appena detto. La storia ci insegna che le mafie sono sempre riuscite a trasformare le crisi in opportunità. La luna di miele con il mondo finanziario non conosce tregua. E pochi si fanno scrupoli ad accettare il denaro delle mafie. Anzi, si sta realizzando quello che il gangster italo-americano Lucky Luciano aveva intuito già alla fine del proibizionismo. Diceva: non esistono soldi sporchi e soldi puliti. Esistono i soldi.

 

A fronte di un reato spesso transfrontaliero qual è la situazione degli organismi internazionali in termini di cooperazione?
A parole sono tutti pronti a collaborare, poi nei fatti c’è sempre chi cerca di gettare sabbia negli ingranaggi, a trovare scuse, a ritardare le risposte in occasione di rogatorie, a inviare materiale tratto da internet quando vengono chieste informazioni su soggetti indagati. Ci sono sforzi, come quelli promossi dall’Interpol grazie a investigatori di provata bravura, come quelli italiani, ma non basta. Bisogna fare di più per globalizzare l’azione di contrasto. Il tempo delle parole è finito. Ora, se c’è davvero volontà politica, bisogna passare ai fatti.

 

Da un’occhiata per le strade delle grandi città c’è la sensazione che certe attività come la ristorazione, soprattutto, siano dominate da catene-lavatrici, pronte a cambiare insegne commerciali e denominazioni sociali ma pur sempre in mano ai clan. Crede che sia così?
È sempre stato così e continuerà a esserlo con qualche variante che tenderà a diventare sistemica. Oggi si investe anche in crypto assets e questa è la nuova frontiera. Ma guai a pensare che le mafie possano trasferirsi dall’oggi al domani sullo spazio digitale. Ci vorrà del tempo, ma il trend è segnato. Avremo ancora ristoranti che servono da lavatrice, ma dovremo essere pronti a cogliere anche le sfide rappresentate dalle innovazioni tecnologiche e informatiche. Anzi dovremo prendere spunto da queste opportunità per migliorare il modo di combattere le mafie. La tecnologia non è di per sé buona o cattiva, dipende dall’uso che se ne fa. E noi dobbiamo sfruttarla per migliorare l’azione di contrasto.

 

Lei ha sempre mostrato un atteggiamento inflessibilmente proibizionista. Eppure la diffusione delle droghe sintetiche e soprattutto della cocaina a buon mercato in tutti i livelli della società sembra inarrestabile. Crede che ci sia una legalizzazione de facto?
Chi propone la legalizzazione delle droghe, non conosce bene quello che è successo nei paesi dove, per esempio, è stata legalizzata la marijuana. Bisogna investire in prevenzione ed informazione, creare commissioni di dissuasione per contenere il danno provocato dalla tossicodipendenza. Bisogna combattere la produzione, creare condizioni alternative a chi vive con i proventi della coltivazione di foglia di coca e concentrarsi in modo più efficace sul fronte della lotta alle droghe sintetiche che rischiano di causare molte vittime anche in Europa e nel nostro paese.

 

La recente inchiesta perugina mostra che le Sos (segnalazioni di operazioni sospette) sono state spesso banalizzate in uno strumento per fare inchieste giornalistiche à la carte e magari proprio con
l’assenso di magistrati che stigmatizzavano gli scambi di utilità con i cronisti. Polemiche, querele, audizioni e pressioni generalizzate sulla stampa non sono un favore a chi deve ripulire denaro con la massima tranquillità possibile?
Prima di valutare questa vicenda, bisogna vedere che cosa è stata davvero. Dalle audizioni del procuratore di Perugia Raffaele Cantone e del capo della Dna Giovanni Melillo si comprende che c’è tanto da approfondire. Se qualcuno ha sbagliato, ne risponderà personalmente. Su questo non bisogna indietreggiare. Ma non mi sento di chiamare in causa tutti i finanzieri che ogni giorno lottano senza soluzione di continuità su vari fronti.

 

Al di là dell’inchiesta perugina non c’è una difficoltà generale della magistratura?
La vicenda delle Sos incide sulla credibilità dei magistrati che era già ai minimi storici. Non ci siamo più risollevati dal caso Palamara perché quando se ne è discusso al Csm l’opinione pubblica non ha compreso o meglio ha compreso che Luca Palamara non poteva essere l’unico problema. Lui aveva un voto, il suo. Poteva raccoglierne altri cinque o sei per mandare in porto le nomine ma ce ne volevano tredici e adesso, dopo la riforma Cartabia, ce ne vogliono sedici. Era necessario dare un segnale molto netto e azzerare il Csm perché a volte non basta essere onesti. Bisogna anche apparire tali.

 

Con la smobilitazione graduale della Dia come corpo d’élite è ancora possibile formare un corpo specializzato nell’antiriciclaggio?
A me piace pensare alla possibilità di creare corpi d’élite, senza duplicazioni di incarichi e responsabilità. La Guardia di Finanza ha un grande know-how nel settore del riciclaggio di denaro ma organici limitati. La polizia postale è a livello di eccellenza e i carabinieri si stanno attrezzando in questo settore investigativo. Ma bisognerebbe omologare le banche dati italiane che spesso non si parlano fra loro perché usano sistemi informatici diversi e, per di più, non hanno un livello soddisfacente di sicurezza. Vedrei ben spesi in questo settore i soldi del Pnrr.

 

Torniamo alla domanda iniziale. Manca la volontà politica di combattere contro il riciclaggio di denaro sporco?
Noi non dobbiamo attaccare i paradisi finanziari ma quei paradisi normativi che non disturbano i manovratori. La City di Londra è una bolla immobiliare fuori da ogni controllo. Le grandi città italiane, dove la redditività è altissima, sono su quella strada. La ristorazione è gestita da prestanome della ‘ndrangheta. Lo stesso vale per le catene della grande distribuzione. Malta, da isola dedita al turismo, è stata sdoganata come sede delle maggiori società di scommesse online internazionali. Quando Daphne Caruana Galizia ha messo in discussione questo sistema con le sue inchieste giornalistiche, è stata uccisa. L’Austria pacifica e democratica ha un segreto bancario impenetrabile. Il primo gennaio 2023 il tetto al contante in Italia è stato innalzato a 5 mila euro e in molti hanno detto che si facilitava la corruzione. Giusto, ma devo anche ricordare che nei paesi dell’Europa centro-settentrionale non esiste nessun tetto. L’ho detto in Commissione antimafia ai colleghi olandesi che sono venuti a chiedere aiuto dopo gli omicidi di un avvocato, di un giornalista e di un collaboratore di giustizia: avete ragionato da commercianti e adesso avete in casa la criminalità organizzata calabrese, gli albanesi che lavorano con la ‘ndrangheta nella cocaina e la maffia con due effe, cioè i nordafricani di terza generazione. Se si ragiona da commercianti, diamo ragione a Lucky Luciano.