Dopo Torino anche Bari, Roma, Bologna, Firenze, Napoli: sono 20 le sedi in agitazione per chiedere che il bando Maeci non venga rinnovato

«L’università non va in guerra». A sostenerlo sono studenti, docenti, ricercatori e personale tecnico-amministrativo degli atenei in stato di agitazione per chiedere la sospensione, almeno finché a Gaza non sarà rispettato il diritto internazionale, della cooperazione tecnologica e scientifica tra Italia e Israele con scopo bellico o duplice (cioè sia civile sia militare). Ma che «le università non entrano in guerra» l’ha detto al Tg1 anche la ministra dell’Università e della Ricerca del governo Meloni, Anna Maria Bernini, con l’intento opposto. Quello di definire «profondamente sbagliata» la richiesta della Scuola Normale Superiore di Pisa al ministero degli Affari esteri di riconsiderare il bando scientifico 2024 per ricerche congiunte tra Italia e Israele, volte a sviluppare tecnologie per il suolo, per l’acqua e sull’ottica di precisione. Un bando a cui gli atenei possono scegliere se aderire entro il prossimo 10 aprile.

 

E sebbene la scelta della Scuola pisana di non aderire sia il risultato di regole democratiche, in quanto conseguenza della mozione votata e approvata dal Senato accademico lo scorso 26 marzo, il rettore, Luigi Ambrosio, ha dovuto difenderla persino da accuse di antisemitismo: «Non c’è nessun boicottaggio, ma in questo momento storico riteniamo doveroso e urgente promuovere una riflessione ispirata dall’articolo 11 della Costituzione, in merito al rischio del cosiddetto dual use di alcune ricerche». I fatti della Normale sono tra quelli che hanno fatto più rumore, visto che l’invito a riflettere arriva da una delle principali eccellenze universitarie italiane, ma sono in linea con gli obiettivi di un più generale movimento a supporto della popolazione palestinese che, da quando Israele ha iniziato a bombardare indiscriminatamente Gaza, chiede il cessate il fuoco per porre fine alla crisi umanitaria che sta devastando la Striscia. E a una guerra in cui finora sono morte 33 mila persone.

 

«Che il movimento sia forte anche dentro l’università non stupisce. Perché, nonostante i tentativi di ridurla a luogo di produzione e di precariato, resta ancora lo spazio in cui grandi masse di studenti e professori si confrontano; così il pensiero critico circola», spiega Salvatore Prinzi, dall'università Federico II di Napoli, dove la Rete Studentesca per la Palestina ha occupato il rettorato l'8 aprile perché «gli accordi stretti tra Italia ed Israele a livello accademico, economico, militare rappresentano un punto di non ritorno circa la complicità dell'accademia con il criminale progetto d'Israele di cancellazione del popolo palestinese», fanno sapere gli studenti. Prinzi lì è docente a contratto di Filosofia  e ricercatore del Cnr. 

 

Proprio il cda dell'ente pubblico di ricerca nazionale, pochi giorni fa, si è espresso a proposito del bando Maeci, vista la mobilitazione che i ricercatori hanno portato avanti anche al suo interno: «Il Cnr non aderisce ad alcuna forma di boicottaggio nei confronti delle istituzioni scientifiche, ma si impegna a garantire che nel presentare proposte siano escluse ricerche in ambiti duali o militari. Un traguardo importante», sottolinea Prinzi. «Un segno che la mobilitazione serve», ribadiscono anche gli studenti di Cambiare Rotta, l’organizzazione che coordina la maggior parte delle proteste scoppiate negli atenei italiani: da Bari a Torino, passando per Genova, Firenze e Roma (oltre che per Pisa e Napoli), dove ci sono stati i casi che finora hanno attirato di più l’attenzione dei media. Anche se sono almeno 20 le università in cui personale, docenti e studenti hanno aderito alla settimana di agitazione, dal 3 al 10 aprile, che prevede iniziative volte alla smilitarizzazione degli atenei. Come il presidio del 9 convocato di fronte alla Farnesina, a Roma, e lo sciopero indetto dall’Unione sindacale di base.

Editoriale
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«Da quando siamo nati, due anni fa, lottiamo per denunciare la complicità del nostro ateneo con la filiera della guerra: abbiamo collezionato una serie di rifiuti al dialogo, ma oggi fare finta di niente è impossibile. Il fatto di esserci incatenati di fronte al rettorato dell’Università di Bari ci ha permesso di ottenere l’incontro pubblico del 7 marzo scorso, quando il rettore, Stefano Bronzini, ha annunciato che si sarebbe dimesso dalla fondazione Med-Or (legata a Leonardo, colosso nel settore Difesa, ndr). E si è reso disponibile a parlare dei vari accordi di cooperazione con Israele portati avanti dai dipartimenti. Una dimostrazione che la lotta paga», spiega Antonella di Cambiare Rotta Bari. Ne è convinta anche Ada, della stessa organizzazione di Torino: «Ci accusano di essere antidemocratici senza dire perché, visto che il Senato accademico ha votato a maggioranza la mozione», racconta a proposito della decisione di non partecipare al bando Maeci presa dall’Università di Torino lo scorso 19 marzo. 

 

Avrebbero voluto che l’ateneo si schierasse contro la guerra anche gli studenti che, sei giorni dopo, hanno occupato il rettorato dell’Università Sapienza di Roma: «Pensavamo che si sarebbe svolta lì la riunione del Senato accademico. Volevamo essere presenti per aprire un dialogo con la rettrice Antonella Polimeni, visto che, sebbene le mobilitazioni vadano avanti da ottobre, non siamo ancora riusciti a instaurarlo. Invece la seduta è stata in un’altra sede e la rettrice non ha voluto incontrarci», racconta Giulio che studia Storia e fa parte del Fronte della Gioventù comunista, tra le organizzazioni che hanno sostenuto l’occupazione. «Chiediamo che l’Università non sia complice di uno Stato sospettato di genocidio. Non veniamo presi in considerazione, ma non abbiamo intenzione di arrenderci».

 

A pensare che gli studenti vadano ascoltati e, soprattutto, che la loro contestazione sia una legittima manifestazione di dissenso sono, comunque, in tanti. Tra questi Luca Guzzetti, docente di Sociologia della comunicazione all’Università di Genova, altro ateneo in cui si sono verificate tensioni tra rettore e studenti. «È stata una normale situazione di protesta», spiega il professore, tra i firmatari dell’appello al governo per lo stop ai progetti di ricerca con Israele. Con tale documento, più di 2.000 accademici hanno chiesto di evitare il rischio che l’Italia diventi complice di quelli che le Corti internazionali dell’Aja stanno vagliando come possibili crimini di guerra o addirittura genocidio. Mentre la ministra Bernini aveva ritenuto necessario consultare direttamente il capo della polizia, Vittorio Pisani, per la gestione dell’ordine negli atenei, per Guzzetti, le rivolte di studenti e professori servono ad attirare l’attenzione su ciò che succede a Gaza e ad accrescere la pressione internazionale per il cessate il fuoco e per la liberazione degli ostaggi israeliani.

 

Momenti importanti per la fondazione di un movimento unitario, che «si dovrebbe definire di “affermazione” più che di “contestazione”. Perché a partire dalla negazione della guerra mette in campo un’altra idea di fare ricerca e, alla fine, di stare al mondo», spiega Michele Lancione, professore di Economia e Geografia politica al Politecnico e all’Università di Torino. Autore del libro “Università e militarizzazione. Il duplice uso della libertà di ricerca”, è lui a sostenere che, se le università riuscissero a impedire il rinnovo del bando Maeci per il 2024, «sarebbe una dimostrazione importante che gli atenei non sono avulsi dal mondo, ma si rifiutano di diventare parte di logiche di morte nascoste dietro la pretesa di un sapere scientifico neutrale».