Proteste
Il tumulto etico degli studenti in rivolta: «Siamo contro un sistema che lascia indietro gli ultimi»
Dagli Stati Uniti all’Europa, in piazza e nelle università, cresce un impegno che ignora, ricambiato, la politica tradizionale e che i media faticano a decifrare
Bloccare le lezioni universitarie. Occupare luoghi pubblici. Lanciare vernice sulle opere d’arte. Fermare il traffico. Portare la protesta all’estremo: al punto da renderla assimilabile a un reato. La generazione più giovane, schiacciata dal cliché dell’indifferenza e dell’apatia, si mette in gioco in modo radicale e, a diverse latitudini, sceglie il tumulto. È la parola che dà il titolo a un saggio del grande intellettuale tedesco Hans Magnus Enzensberger, scomparso ultranovantenne nel 2022: in quelle pagine riprendeva il filo di una stagione di proteste, sommosse, manifestazioni, assalti. Scontri di piazza. Militanti, studenti, pacifisti indignati. Quelle esperienze, dice Enzensberger, «sono sepolte sotto il mucchio di letame dei media, del materiale d’archivio, dei dibattiti, della schematizzazione da vecchi militanti», ma lui non vuole dimenticare «quanto rumore faceva il tumulto». E d’altra parte, «vecchio mio, sai bene quanto me che il tumulto non finisce mai. Semplicemente ha luogo da qualche altra parte, a Mogadiscio, Damasco, Lagos o Kiev, ovunque abbiamo la fortuna di non vivere. È solo una questione di prospettiva».
E se il tumulto si fosse ravvivato nello stanco Occidente? Se gli under 25 – fra attivismo climatico e pacifismo – tra Europa e Stati Uniti fossero pronti a riprendersi la scena come in un nuovo virulento ’68? In un articolo pubblicato dal New Yorker e molto discusso, la scrittrice Zadie Smith ha per l’appunto evocato le proteste degli anni Sessanta e Settanta nei campus, che lei definisce «zone di interesse etico». «Parte del significato di una protesta studentesca – scrive Smith – è il modo in cui offre ai giovani l’opportunità di insistere su un principio etico pur essendo, in termini comparativi, una forza più razionale dei presunti adulti». «Cessate il fuoco» non è in primo luogo una richiesta politica, è soprattutto una richiesta etica. E se fosse da questa via che la generazione etichettata come post-ideologica si riprende la scena? Da un radicalismo etico che, disinteressato al piccolo cabotaggio delle politiche nazionali, alza la posta in gioco, rimette in circolo valori universali, assoluti. Con piglio aggressivo, che non pochi giudicano fanatico e intollerante. È una gioventù in larga parte “privilegiata”, come quella di mezzo secolo fa, ad alimentare proteste scenografiche e invasive, con punte di estremismo. Quadro affascinante e turbolento, in costante evoluzione. Imprevedibile come possono esserlo i ventenni.
Gli studiosi di storia politica, stando alla stampa americana, hanno già colto nelle proteste nei campus la matrice di quello che potrebbe essere considerato uno dei movimenti più rilevanti degli ultimi decenni. Il Washington Post ha interpellato un docente della Columbia, Thai Jones, convinto che sia ancora prematuro paragonare le proteste attuali a quelle del 1968 contro la guerra in Vietnam: «Ma i legami saldi fra campus e la forza mediatica con cui arrivano le immagini degli studenti arrestati potrebbero innescare un movimento di massa».
E gli studenti italiani? Guardano lontano e forse pensano la stessa cosa. Alessandro, Liceo Virgilio di Roma, è convinto che «esploderà via via anche qui e in altri Paesi europei». Lorenzo, del Liceo Augusto, raccoglie le voci dei suoi coetanei, e sono sulla stessa lunghezza d’onda: «Credo che le manifestazioni nei campus americani possano essere l’inizio di un risveglio globale sulla questione israelo-palestinese e sono comunque il sintomo di una consapevolezza maggiore e di un interesse più forte da parte dell’Occidente riguardo al conflitto in Medio Oriente». C’è chi conferma l’analisi di Thai Jones: il profilo severo e repressivo della polizia americana non resta sullo sfondo. «Tutti coloro che hanno avuto il coraggio di protestare contro il genocidio in atto a Gaza hanno rischiato. Basti pensare che, dall’inizio delle proteste, oltre duemila ragazze e ragazzi sono stati arrestati con la sola colpa di avere esercitato il proprio diritto di libertà d’espressione». E aggiunge considerazioni sulla «grande ombra americana», che in effetti riportano allo spirito di mezzo secolo fa. Forse inconsapevolmente. «Bisogna ammettere che purtroppo tutti gli altri Paesi restano oscurati da ciò che accade negli Stati Uniti; infatti sebbene da mesi in tutta Europa gli studenti si siano mobilitati a favore del popolo palestinese, queste manifestazioni hanno iniziato a fare maggiore scalpore solo con la diffusione in America».
A ogni modo, colpisce la prospettiva internazionale dell’impegno; se chiedo ai miei interlocutori quanto si sentano coinvolti dal paesaggio politico del nostro Paese, mi sento rispondere: «Quando sento per settimane parlare solo di alleanze, nomi sui simboli, nomi dei capilista, mi sento molto distante e poco rappresentato». Tanto vale allargare l’orizzonte: «Fare politica oggi, in qualità di studente, significa andare controcorrente, tentare di andare oltre il mare di indifferenza in cui siamo abituati a vivere, con l’obiettivo e la speranza di cambiare qualcosa». Non avrebbe forse risposto allo stesso modo un attivista di cinquantasei anni fa? Dove sembrava avere attecchito il disincanto, dove la palude della rassegnazione e dell’apatia sembravano inamovibili, qualcosa imprevedibilmente si muove.
Alla fine del ventesimo secolo, mentre scadevano le ipoteche ideologiche e quelle spirituali, un uomo che aveva attraversato i sogni, le speranze e le tempeste della politica da sinistra, Vittorio Foa, si disponeva a dialogare con i giovanissimi. Non era pessimista: i valori, diceva, non sono collocati in una cassetta di sicurezza, i valori vanno cercati ed è una fatica. Anche se orfani, non siamo privi di bussola. Senza ipoteche marxiste o clericali, «c’è un’occasione straordinaria, unica, per darsi da fare». Gli under 25 con anagrafe post-novecentesca non hanno l’aria di essere spaventati dalla fine delle vecchie strutture: «Il concetto di partito – mi dice un ragazzo – è perduto. Nelle forze politiche odierne, qualunque sia il colore, dominano la divisione, la contraddizione e la corruzione. Se dovessi andare a votare, sarei in seria difficoltà, non riesco a rispecchiarmi pienamente in nessun simbolo». Ma questo non vuol dire abdicare all’impegno. Anzi. Un’altra voce: «Penso che quello che sta accadendo nelle università americane sia un segnale. Un segnale che la nostra generazione ha tanto disagio da esprimere rispetto a un futuro che fatica a vedere. Il tema della Palestina è riuscito a diventare un punto di partenza trasversale». Non gli suggerisco il parallelo con gli anni Sessanta: fa da solo, e cita il sostegno al popolo vietnamita. «Fare politica oggi vuol dire interessarsi a ciò che succede intorno a noi e lontano da noi. Riuscire ad avere uno spirito critico contro un sistema che lascia indietro gli ultimi e non pensa ai più giovani. Ma gli ideali e gli interessi della mia generazione non sono rappresentati da nessun simbolo sulla scheda elettorale».
Non sono in aperta contraddizione – domando – lo slancio della militanza e l’astensionismo alle elezioni politiche o amministrative? «Il disinteresse per la politica nazionale non credo sia una questione generazionale. I cittadini hanno perso fiducia non sentendosi rappresentati e tutelati». Come se ne esce? Saltando il confine, i confini? Cambiamento climatico e questioni geopolitiche e difesa dei diritti civili sono il carburante di un “internazionalismo” di fronte al quale il dibattito sul nome del segretario del partito sul simbolo elettorale o le idee deliranti di un Vannacci hanno il sapore dell’archeologia o del grottesco.
Intanto, lasciamoci alle spalle i cliché sul disimpegno. Non tutti seguono allo stesso modo, parecchi «restano indifferenti ai temi politici perché respirano l’indifferenza delle loro famiglie». Ma intruppare una generazione nel recinto dell’inerzia è un errore prospettico, corretto dai tumulti di queste settimane. Mentre Zadie Smith – nata nel 1975 – si interroga su alcune scivolose questioni di metodo nelle proteste (come si tiene in considerazione il fatto che qualcuno possa sentirsi insicuro o minacciato – lo studente ebreo, mettiamo – nell’università a cui è iscritto?), i nati negli anni Duemila trascurano forse gli effetti collaterali e rivendicano come necessaria la «prepotenza» del tumulto. Occupare. Bloccare. Fare rumore. Creare disagio, in modo anche scenografico. Molti adulti – dicono – guardano al famoso dito e non alla luna: alla colata di vernice su un’opera d’arte, all’imbottigliamento su un’arteria stradale, all’interruzione della didattica in un contesto scolastico o accademico. Ma il punto è un altro. E comunque, come nota Smith, nel sostenere una «necessità etica» ci si può mettere in conflitto aperto con gli amici, la famiglia, la comunità. «Le nostre zone di interesse etico non hanno confini fissi». Questione epocale. E incandescente.
3. Continua