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La Commissione Onu accusa Hamas e Israele di crimini di guerra

di Simone Alliva   12 giugno 2024

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Nusairat, palestinesi ispezionano l'edificio danneggiato a seguito di un attacco aereo israeliano su una scuola delle Nazioni Unite UNRWA, che ospitava sfollati . 40 morti tra cui 14 bambini e 9 donne

Putin sfida il G7. La destra moderata si allea con Le Pen. Hunter Biden rischia 25 anni di carcere. La maggioranza accelera al Senato sul premierato. Conte lancia la costituente del M5s e avverte: "Pronto a farmi da parte". Le notizie del giorno

Un rapporto della Commissione di Inchiesta Onu accusa Hamas e Israele di crimini di guerra 

Sia Israele che Hamas hanno commesso dei crimini di guerra il 7 ottobre e nel periodo successivo fino al 31 dicembre: è quanto risulta dal rapporto della Commissione di Inchiesta delle Nazioni Unite (Coi). Il rapporto accusa Hamas di «aver diretto intenzionalmente attacchi contro i civili» e di aver commesso «omicidi o uccisioni intenzionali», oltre a «tortura, trattamento inumano o crudele» e di «lancio indiscriminato di proiettili verso aree popolate in Israele». Hamas è stata anche accusata di «crimini di guerra di oltraggi alla dignità personale» compresa «la profanazione di cadaveri mediante roghi, mutilazioni e decapitazioni» e "la profanazione sessualizzata di cadaveri sia maschili che femminili» e «violenza sessuale». 

Il rapporto prosegue elencando quelli che definisce crimini di guerra israeliani, tra cui «la fame come metodo di guerra; omicidio o omicidio volontario; dirigere intenzionalmente attacchi contro civili e beni civili; trasferimento forzato; violenza sessuale; oltraggi alla dignità personale» e afferma che «Israele ha inflitto punizioni collettive alla popolazione palestinese a Gaza». «Il 7 ottobre 2023 ha segnato un chiaro punto di svolta sia per gli israeliani che per i palestinesi, e rappresenta uno spartiacque che può cambiare la direzione di questo conflitto; con il rischio reale di consolidare ed espandere ulteriormente l'occupazione. In mezzo a mesi di perdite e disperazione, ritorsioni e atrocità, l'unico risultato tangibile è stato l'aggravarsi delle immense sofferenze sia dei palestinesi che degli israeliani, con i civili, ancora una volta, a sopportare il peso delle decisioni di chi è al potere. Per gli israeliani, l'attacco del 7 ottobre non ha precedenti nella sua storia moderna, quando in un solo giorno centinaia di persone sono state uccise e rapite, invocando il trauma doloroso della persecuzione passata non solo per gli ebrei israeliani ma per gli ebrei di tutto il mondo. Per i palestinesi, l'operazione militare e l'attacco israeliano a Gaza sono stati i più lunghi, massicci e sanguinosi dal 1948. Hanno causato immensi danni e perdite di vite umane e hanno risvegliato in molti palestinesi ricordi traumatici della Nakba e di altre incursioni israeliane", continua il documento. Secondo quanto riporta l'agenzia di stampa Reuters il rapporto verrà discusso la prossima settimana a Ginevra dal Consiglio per i diritti umani dell'Onu.

 

 

 

 

Putin sfida il G7. Navi con missili ipersonici a Cuba

Vladimir Putin irrompe sul vertice di Borgo Egnazia, dove la strategia per contrastare la Russia sarà tra i temi centrali dell'agenda del G7. A due giorni dall'inizio del vertice in Puglia, Mosca ha avviato con la Bielorussia una nuova fase delle sue manovre sull'uso delle armi nucleari tattiche. E, con una mossa ancor più drammatica dal punto di vista simbolico, ha inviato all'Avana una squadra navale che trasporta i missili ipersonici Zirkon. Abbastanza per evocare, con un po' di esagerazione, la crisi di Cuba del 1962, che in Russia è chiamata 'la crisi dei Caraibi'. Gli Zirkon - in grado di coprire in pochi secondi i meno di 200 chilometri che separano Cuba dalla Florida - sono imbarcati sulla fregata Ammiraglio Gorshkov, accompagnata dal sottomarino nucleare Kazan e da due navi d'appoggio. Ieri il gruppo navale ha effettuato esercitazioni nell'Atlantico, simulando al computer il lancio di missili fino ad oltre 600 chilometri di distanza. E il comandante della Marina russa, Alexander Moiseev, ha annunciato che «domani arriveranno a Cuba nell'ambito della cooperazione internazionale» tra i due Paesi. Nei giorni scorsi, quando la missione era stata preannunciata dal governo dell'Avana, un portavoce del Pentagono, Charlie Dietz, ha minimizzato, affermando che essa fa parte delle «operazioni navali russe di routine e che non pone alcuna minaccia diretta agli Stati Uniti». Ma Newsweek, basandosi su dati di tracciamento open source, scrive che navi da guerra statunitensi e canadesi «seguono come un'ombra» la flottiglia russa. Un braccio di ferro che non raggiunge i livelli di drammaticità della crisi del 1962, ma che con essa ha qualche similitudine. Incontrando le agenzie straniere la settimana scorsa, Putin aveva avvertito che Mosca avrebbe potuto decidere di consegnare missili in regioni del mondo da dove avrebbero minacciato «obiettivi sensibili» in Paesi Nato che hanno concesso all'Ucraina il permesso di usare contro il territorio russo i vettori da loro forniti. Due giorni dopo ha detto che non si trattava di un passo imminente. Ma anche 62 anni fa Nikita Khrusciov inviò i missili sovietici nell'isola caraibica in risposta allo schieramento di nuovi vettori americani in Turchia (oltre che in Italia), vicino alle frontiere dell'Urss. E il braccio di ferro si concluse con un passo indietro da ambo le parti. La Russia ha fatto sapere di aver avviato anche la seconda fase delle esercitazioni sulla prontezza delle sue testate nucleari non strategiche, a cui partecipa la Bielorussia. Si tratta di accertare la preparazione di queste armi per «garantire incondizionatamente la sovranità e l'integrità territoriale» dei due Paesi, ha sottolineato il ministero della Difesa di Mosca. Manovre molto importanti, ha aggiunto il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, vista la «situazione piuttosto tesa nel continente europeo», provocata a suo avviso dalle «nuove decisioni e azioni ostili quotidiane delle capitali europee e di Washington». Tra queste azioni, secondo Mosca, ci sono anche quelle dei servizi segreti ucraini e di Paesi della Nato che «reclutano esecutori di crimini di alto profilo» contro la Russia «anche tra i lavoratori immigrati». «Un esempio indicativo - ha affermato Alexander Botnikov, capo del servizio di sicurezza interno Fsb - è il coinvolgimento dell'intelligence militare ucraina nell'attacco terroristico al Crocus City Hall, che abbiamo stabilito». La strage del marzo scorso, costata la vita a oltre 140 persone, è stata rivendicata dall'Isis, ma le autorità russe, pur ammettendo che gli esecutori materiali erano estremisti islamici, hanno accennato al possibile coinvolgimento di Kiev come mandante. Tuttavia questa è la prima volta che puntano direttamente il dito contro lo Stato ucraino. Nell'inchiesta sono stati arrestati finora diversi immigrati dal Tagikistan, di cui quattro sono accusati di essere gli esecutori materiali. Per quanto riguarda la situazione sul terreno, il ministero della Difesa di Mosca ha annunciato la conquista di altri due villaggi in Ucraina: Artyomovka, nella regione di Lugansk, e Timkovka, in quella di Kharkiv.

 

 

Hamas ha respinto la proposta di pace

Hamas ha respinto la proposta di cessate il fuoco presentata dagli Stati Uniti. Un funzionario israeliano, ampiamente citato dai media ebraici, afferma che la risposta di Hamas alla richiesta di liberazione degli ostaggi e all'offerta di una tregua «di fatto respinge la proposta». Secondo quanto riferito, la risposta di Hamas e della Jihad islamica include modifiche all'offerta, inclusa una nuova tempistica per il rilascio degli ostaggi e il ritiro delle truppe israeliane da Gaza che secondo il capo del Mossad, Dedi Barna, costituiscono un sostanziale rifiuto. Barna è stato aggiornato sui dettagli della risposta dal primo ministro del Qatar, Muhammad al-Thani, e fonti a conoscenza dei dettagli hanno spiegato che Hamas ha cambiato «l'intera proposta». Secondo le fonti israeliano «il significato è chiaro: un rifiuto della proposta di Biden».

 

 

La destra moderata si allea con Le Pen, choc in Francia

La Francia piomba nel caos politico: per la prima volta i Républicains, eredi del gollismo barriera all'estrema destra, offrono l'alleanza elettorale a Marine Le Pen. In pochi minuti, il presidente Eric Ciotti, autore dell'iniziativa, è stato contestato dai big del partito, molti dei quali ne hanno chiesto Le dimissioni. E in serata prima il ministro Bruno Le Maire e poi l'ex premier Edouard Philippe hanno «teso la mano» ai repubblicani che si oppongono all'alleanza con il Rassemblement National. Nel clima di grande palpitazione, Emmanuel Macron ha rinviato a domani la conferenza stampa annunciata per oggi, escludendo comunque Le dimissioni qualunque sia l'esito del voto. Mentre nella gauche l'accordo per presentare candidati unici è messo a dura prova da Raphael Glucksmann: arrivato terzo alle europee e tutt'oggi prima forza di sinistra con il suo Place Publique, pone condizioni difficili da soddisfare. La decisione di sciogliere il Parlamento e convocare elezioni anticipate presa dal capo dell'Eliseo domenica sera dopo i risultati delle Europee è apparsa come un colpo di scena, ma Le conseguenze sembrano ancora più esplosive, giorno dopo giorno. L'annuncio di Ciotti è stato un ennesimo shock per la Francia: il tabù dell'alleanza con Le Pen, il muro eretto da de Gaulle e protetto dai suoi eredi fino a Chirac e Sarkozy, è crollato in pochi minuti. La proposta di Le Maire e Philippe ai dissidenti è quella di confluire in una «nuova maggioranza». Si va verso la lacerazione definitiva della destra moderata, già ridotta sotto il 10% dei voti, con una scissione o una sconfessione del presidente. Sul piano delle alleanze, sembra sfumata quella fra l'ultradestra di Reconquète! di Eric Zemmour e Marion Maréchal con i lepenisti, che ieri sera era data per fatta. Dal rammarico della nipote di Marine Le Pen si desume che sia stato il partito della zia a rifiutare il patto con Zemmour. Che si vada verso una completa ricomposizione del panorama politico in Francia dopo il terremoto di domenica sembra avvalorato anche da quello che - stando a frasi pronunciate da Macron su un aereo che ieri lo riportava a Parigi - il presidente ha confidato: «Voglio tendere la mano a tutti coloro che sono pronti a venire a governare e a lavorare ad una radicalità ambiziosa. La decisione che ho preso apre una nuova era». Per la terza serata consecutiva, la sinistra si ritrova in piazza - a République nel caso di Parigi, ma in tutto il Paese si sono svolti raduni - per manifestare contro l'estrema destra. Una cadenza quotidiana che ricorda il 2002, quando Jean-Marie Le Pen arrivò per la prima volta al ballottaggio delle presidenziali e in tutta la Francia, per due settimane, i partiti si riversarono ogni sera in piazza manifestando per il 'fronte repubblicano' che poi diede la vittoria con il margine più ampio a Jacques Chirac. Sotto alla sede dei Républicains, all'uscita di Ciotti si sono registrati tafferugli per la protesta di una deputata ecologista che gridava "vergogna" e di alcuni giovani dell'unione studenti ebrei di Francia che protestavano contro il cedimento a Le Pen. La sinistra sta lavorando all'accordo su "candidati unici" trovato ieri sera, anche se agli ecologisti, France Insoumise, socialisti e comunisti non si unisce per il momento Raphael Glucksmann, il più votato della gauche alle europee. Pone 5 condizioni fra Le quali «il sostegno totale alla resistenza ucraina», che non sembra automatico nella gauche radicale di Jean-Luc Mélenchon. Nella maggioranza uscente, la decisione di Macron sulle urne - contro la quale si registra anche un ricorso al Consiglio costituzionale - ha provocato molti scricchiolii. Edouard Philippe ha giudicato «non completamente sano che il presidente della Repubblica faccia una campagna legislativa». Proprio quello che Macron farà da domani, con la conferenza stampa che dovrà lanciare la campagna elettorale lampo della sua maggioranza

 

 

 

 

"Hunter Biden è colpevole". Ora rischia 25 anni di carcere

La First Lady degli Stati Uniti, occhiali neri e sguardo basso, che esce da un tribunale mano nella mano con il First son degli Stati Uniti appena condannato per tre reati federali. E' la fotografia che racconta meglio un evento senza precedenti: Hunter Biden è stato giudicato colpevole per tutte e tre le accuse a suo carico nel processo per l'acquisto e il possesso di un'arma nonostante la dipendenza dalle droghe e ora rischia fino a 25 anni di carcere. La prima volta nella storia americana per il figlio di un presidente in carica e a soli sei mesi dalle elezioni. Rispetto al procedimento a New York contro Donald Trump, quello a carico di Hunter è filato piuttosto liscio ed è durato poco: la giuria ha raggiunto il verdetto unanime in sole tre ore e apparentemente senza nessun dubbio sulla colpevolezza di Hunter. Tuttavia non sono mancati momenti drammatici, come la testimonianze della vedova del fratello Beau, che ha fatto sparire la pistola, o quella della figlia Naomi che, invano, ha provato a convincere i 12 giurati che il padre era «pulito» quando nel 2018 acquistò la famigerata arma. Invece lo hanno giudicato colpevole di aver mentito sui due moduli federali da compilare per poter effettuare l'acquisto e di aver posseduto e portato con sé il revolver nonostante l'abuso di crack, cocaina e altre droghe pesanti. Ora rischia fino a 25 anni di carcere e una multa da oltre 700.000 dollari ma non avendo precedenti è probabile che la sua pena sarà ridotta e prima ci sarà l'appello. «Sono più grato per l'amore ricevuto dalla mia famiglia che deluso per l'esito del processo», ha dichiarato in una nota Hunter. Normalmente la sentenza è prevista 120 giorni dopo il giudizio, quindi a pochi giorni dal voto di novembre. Il commander-in-chief ha già assicurato che non intende graziare il figlio e lo ha ribadito subito dopo la sentenza. «Accetto l'esito del procedimento penale e continuerò a rispettare il processo giudiziario», ha detto Biden sottolineando di «essere il presidente ma anche un papà. Io e Jill ci saremo sempre per Hunter. Siamo orgogliosi di lui oggi». Una dichiarazione accorata, espressione di un momento molto complicato per la famiglia e per il presidente in particolare, che con il processo ad Hunter ha rivissuto gli anni più drammatici della sua vita, dalla morte della prima moglie in un incidente d'auto nel quale rimase uccisa anche la figlioletta di un anno Naomi alla scomparsa per cancro dell'amato figlio Beau, alla storia della vedova di quest'ultimo con Hunter, che l'ha trascinata con sé nel baratro delle droghe. Una fase delicata anche in chiave elettorale ma che potrebbe non avere un effetto del tutto negativo sulla campagna del democratico. Dopo mesi, infatti, che Trump accusa Biden di aver strumentalizzato la giustizia contro di lui la condanna di Hunter, perseguito dal procuratore speciale David Weiss che il tycoon all'epoca nominò attorney general del Delaware, spunta un'arma importante nell'arsenale del movimento Maga. E nonostante il dolore per la sentenza, ora il presidente può ribadire con più forza e convinzione che «nessuno è al di sopra della giustizia», neanche suo figlio. Trump nei giorni scorsi ha espresso solidarietà nei confronti di chi soffre di dipendenza, avendo avuto un fratello alcolizzato e «molti amici che sono morti a causa di droga e alcol», e sinora ha evitato di parlare del processo contro Hunter. Ma chissà se manterrà la stessa linea nei prossimi mesi, soprattutto in vista del primo dibattito televisivo contro Biden, il 27 giugno.

 

 

 

 

La maggioranza accelera al Senato sul premierato

Il Senato, dopo la pausa elettorale per le Europee, riprende l'esame del premierato. E rimane acceso il confronto tra maggioranza e opposizioni. Il centrodestra preme sull'acceleratore per arrivare al voto finale il 18 giugno. Muro dei partiti di minoranza con oltre 1.200 emendamenti presentati all'articolo 5 - 'cuore' del ddl costituzionale - che prevede l'elezione diretta del presidente del Consiglio. Una raffica di emendamenti 'sfoltiti' con l'utilizzo del cosiddetto canguro, lo strumento che accorpa, in un unico voto, proposte di modifica simili. La seduta si è conclusa questa sera e l'esame ha ripreso questa mattina alle 10. Bocciata dal centrodestra - con il voto in aula - la richiesta delle opposizioni di avere altro tempo per l'esame degli emendamenti. Rimane così invariato il numero di ore contingentate così come approvato nella capigruppo dei giorni scorsi (a maggioranza quindi senza accordo bipartisan). «Il presidente non consentirebbe nessuna 'mordacchia' che non sia ossequiosa al Regolamento» precisa Ignazio La Russa, in apertura di seduta, replicando in aula ad Alessandra Maiorino del Movimento 5 stelle che aveva utilizzato questo temine per contestare il contingentamento dei tempi. «Al momento abbiamo già dedicato 37 ore di dibattito a questa riforma. Sicuramente - sottolinea il presidente del Senato - ce ne saranno altre 10 o 15 e andremo oltre le 50 ore, che sono superiori a quelle che il Senato ha dedicato a una riforma molto più ampia ma non meno importante». Le opposizioni intanto rivendicano la tattica dell'ostruzionismo e promettono battaglia fuori e dentro al Parlamento. «Abbiamo preso atto ma non ci rassegniamo a un esame che prevede sia il 'canguro' e sia il contingentamento dei tempi», sono le parole di Andrea Giorgis, del Pd. La maggioranza, dal canto suo, tira dritto determinata nel non rallentare l'iter della "madre di tutte le riforme». E l'inciampo sulla mancanza del numero legale (seduta sospesa per venti minuti) non rallenta più di tanto la marcia del Premierato. «Quando si confrontano due visioni così diametralmente opposte arriva il momento in cui si deve andare avanti. Siamo sempre più convinti che questa riforma rafforza la democrazia e che sia giusto andare avanti», dice il senatore di Fratelli d'Italia, Andrea De Priamo rivolgendosi alle opposizioni. 

 

 

 

 

Bonaccini: "No a veti su Renzi e Calenda" 

«È stata premiata la scelta di essere finalmente uniti. Abbiamo fatto gioco di squadra e mi auguro che la stagione dei litigi e delle polemiche interne sia definitivamente alle spalle». Così il presidente dell'Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, commenta il risultato del Pd alle recenti elezioni europee in un'intervista al quotidiano La Stampa. «La segretaria Elly Schlein ha scelto giustamente di indicare pochi temi, ma rilevanti nella vita delle persone: lo smantellamento della sanità pubblica che sta attuando il governo e la battaglia per il salario minimo legale, perché non è degno di un Paese civile che si lavori per pochi euro l’ora», aggiunge, «gli elettori ci hanno premiato e hanno indicato il Pd come l’alternativa più credibile alla destra, il perno su cui costruire una futura coalizione di centrosinistra. Chi non lo accetta, consegna automaticamente il Paese a Meloni per i prossimi decenni». E afferma ci condividere "al cento per cento" le parole di Romano Prodi, secondo cui l’opposizione deve dotarsi di una forte cultura di governo. Sulle coalizioni che potrebbero coinvolgere il Pd, Bonaccini sottolinea: «In Emilia-Romagna io governo una coalizione dalla sinistra e i verdi ad Azione e Italia Viva. E con il M5s governiamo insieme in città importanti come Bologna, Ravenna o Modena. Non esistono veti, ma alleanze basate su un programma chiaro e candidature serie. Con tutto il rispetto per le persone e i militanti dei loro movimenti, mi auguro che Calenda e Renzi abbiano capito che arroccarsi ognuno sul proprio monte equivale a condannarsi all’irrilevanza politica, quando invece possono portare contributi importanti alla costruzione dell’alternativa». 

 

 

 

 

 

Conte lancia la costituente del M5s e avverte: "Pronto a farmi da parte"

Se e come andare avanti. Nelle 36 ore successive al voto la riflessione silenziosa di Giuseppe Conte ha ruotato attorno a questi due interrogativi cruciali. E durante l'assemblea dei gruppi convocata in tarda serata lancia la carta a sorpresa, una costituente per rivedere le regole. Ma avverte: non intendo nascondere la responsabilità per la sconfitta ed offro la «disponibilità a mettermi per primo in discussione», addirittura a farsi da parte se la comunità dovesse ritenere che la sua guida «possa oggi rivelarsi un ostacolo» agli obiettivi e al perseguimento dei valori M5S. «Credo sia venuto il momento di costruire una grande assemblea collettiva, «un'assemblea costituente», con la partecipazione di tutti gli iscritti, in presenza e da remoto: ha spiegato poi il leader . «Sarà questa la sede - ha detto il presidente pentastellato - per discutere insieme del miglioramento delle regole e per definire le modifiche che riterremo necessarie». Il Movimento 5 stelle è uscito azzoppato dalle elezioni europee, più che doppiato dai nemici-amici del Pd. E il risultato, inaspettatamente basso anche per lo stato maggiore del Movimento, ha generato fibrillazioni e tensioni tra eletti e attivisti. Tanto da evocare lo spettro delle dimissioni del leader: uno scenario che se qualche pentastellato - rigorosamente a microfoni spenti - auspica, la maggioranza teme: «Non si andrebbe avanti senza di lui, non c'è nessuno all'altezza che possa sostituirlo», il refrain tra i deputati. Conte, che ha annunciato sin da subito una seria «riflessione interna" sull'esito elettorale, non l'avrebbe escluso tout court per senso di responsabilità. Ma prima di incontrare i suoi parlamentari ha anche cercato di sdrammatizzare con una battuta: «dimissioni sul piatto?, sì, della cena...», ha detto. Nel corso della riunione di deputati e senatori convocata alla Camera ha comunque esplicitato il concetto che che non è attaccato alla poltrona ma che ogni momento di crisi può trasformarsi in un momento di maturazione, se affrontato rimanendo uniti. Dunque - scommettono i più - non abbandonerà la nave, discuterà delle scelte fatte, ascolterà anche le eventuali critiche e cercherà una sintesi, per rilanciare il Movimento. Se sarà possibile. Ma quel 9,9% alle urne ha suscitato inevitabili malumori e veleni interni. In casa 5s si riflette sull'opportunità di aver candidato volti poco noti, a discapito di quei 'big' messi fuori gioco dal limite del secondo mandato. Ma anche sul rapporto con il Pd e con gli altri partiti di opposizione. Come spesso accade, nei momenti di crisi, la tentazione è, poi, guardare al passato: al Movimento delle origini, alle vecchie glorie come Alessandro Di Battista, a Beppe Grillo (invocato senza mezzi termini dall'ex ministro Danilo Toninelli che ha accusato Conte di essere un "tecnico" che "non sa emozionare"), o anche ad una nuova leadership. Magari, questa volta, al femminile. In questo caso, i nomi ricorrenti sono due: l'ex sindaca di Torino Chiara Appendino e l'ex inquilina del Campidoglio Virginia Raggi, la grande esclusa dalle ultime tornate elettorali proprio per il vincolo dei due mandati. Raggi o non Raggi, il tema della ricandidabilità potrebbe essere presto sollevato. «E in questo caso Conte non avrebbe problemi a parlarne - dice chi lo conosce bene - A dire il vero, è una regola cara più a Beppe Grillo che a lui". Ma difficilmente qualcosa cambierà nell'immediato. Intanto, un possibile addio di Conte è vissuto come uno psicodramma dalla maggior parte degli eletti. Tanto che più di uno si affretta a chiarire che in discussione non c'è la leadership dell'avvocato del popolo' e che l'assemblea dei gruppi non si trasformerà in un processo a lui. «Faremo una riflessione approfondita su questa tornata elettorale, ma Giuseppe Conte è una risorsa troppo preziosa per la politica italiana Ci rialzeremo anche stavolta, con ancor più motivazione», fa sapere la deputata siciliana Daniela Morfino. «Rifletteremo su come migliorare, ma la leadership di Giuseppe Conte non è in discussione», le fa eco la senatrice Elisa Pirro. «Il risultato di queste elezioni ci consegna l'obbligo di una profonda riflessione interna", ma "Conte rimane saldamente alla guida del M5s», taglia corto anche Vittoria Baldino. Nel caos post-elettorale, c'è chi rilancia la possibilità di un nuovo nome e di un nuovo simbolo per i pentastellati, ma l'ipotesi non trova riscontro. Di Battista, tra i pionieri del Movimento ormai fuoriuscito da tempo, è tranchant nell'analisi del voto: il M5s «si è dimezzato rispetto a 5 anni fa e la mia sensazione è che il problema principale sia politico». E punta il dito contro «l'abbraccio mortale col Pd», di cui è stato sempre un detrattore. Di certo, nella costruzione dell'alternativa a Giorgia Meloni, il M5s di oggi dovrà ripensarsi anche nel rapporto con i dem.