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Al G7 il governo Meloni fa sparire il diritto all'aborto dalla bozza del documento. E scoppia il caso

di Simone Alliva   13 giugno 2024

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Giorgia Meloni

Repubblicani si spaccano su Le Pen. Ue aumenta i dazi su auto cinesi. Rissa al Senato sull’autonomia. I fatti da conoscere

Al G7 il governo italiano fa cancellare il riferimento al diritto all’aborto 

Il G7 dei capi di Stato e di governo non è ancora cominciato ma ha già creato scompiglio tra le cancellerie. Non sui dossier principali, come l'Ucraina o Gaza, sui quali il consenso tra i Grandi sembra unanime, e nemmeno sull'uso degli asset russi per finanziare la guerra di Kiev che vede approcci diversi tra Ue e Usa. Ma sul diritto all'aborto. Secondo fonti europee, nell'ultima bozza della dichiarazione finale del vertice di Borgo Egnazia è scomparso il punto nel quale i Sette sottolineavano l'importanza di garantire «un accesso effettivo e sicuro all'aborto». Il riferimento doveva rafforzare - come chiedevano soprattutto Francia e Canada - il comunicato finale del G7 di Hiroshima di un anno fa, che parlava invece di «accesso legale e sicuro». In serata fonti della presidenza italiana hanno poi precisato che gli sherpa, al lavoro in Puglia già da lunedì, stanno ancora trattando e che «tutto quello che entrerà nel documento conclusivo sarà un punto di caduta finale frutto dei negoziati». Nessuno dei Sette, hanno quindi sottolineato le fonti italiane replicando alle indiscrezioni trapelate su «organi di stampa»,ha chiesto di «eliminare» il punto sull'aborto dalla bozza, nel quale resta invece il riferimento al gender equality. Ma il protrarsi di trattative dimostra per lo meno una differenza di sensibilità politiche sul tema. Con l'Italia di Giorgia Meloni che ha deciso di rafforzare l'apertura dei consultori alle associazioni Pro Vita, e la Francia di Emmanuel Macron - ora alle prese con la sua più grave crisi politica - che a marzo ha invece inserito, con un sì bipartisan, il diritto all'aborto in Costituzione. Mentre Joe Biden ha fatto della libertà di scelta delle donne, minacciata da Donald Trump, uno dei terreni di battaglia della campagna elettorale in vista del voto di novembre. 

Già lo scorso aprile il tema era stato oggetto di un botta e risposta a distanza tra il presidente francese e la premier, mentre il Parlamento europeo uscente aveva approvato la richiesta di inserire quello all'aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell'Ue. Le voci di un possibile tratto di penna sul tema dalla dichiarazione finale hanno scatenato immediate reazioni anche interne, dal Pd a +Europa che denunciano un attacco ai diritti delle donne da parte del governo. Alla vigilia dell'apertura dei tavoli dei capi di Stato e di governi, appare invece con forza la determinazione dei Sette a ribadire il sostegno politico e militare al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che interverrà nel primo giorno di lavori. 

Dalle indiscrezioni che emergono sulla bozza finale, diffuse da Bloomberg, c'è l'impegno ad "aumentare la produzione e la consegna" di armi a Kiev, e un duro richiamo alla Cina affinché smetta di sostenere la guerra di Vladimir Putin fornendo tecnologie e componenti di armi, utili alla fabbricazione di armamenti. E mentre le navi di Mosca si avvicinano a Cuba, i leader metteranno in guardia la stessa Russia da minacce nucleari "irresponsabili" contro l'Occidente. L'alleanza anti-Putin si concretizzerà a Borgo Egnazia anche con la firma dell'accordo di sicurezza tra Ucraina e Usa, nel bilaterale tra Zelensky e Biden a margine del vertice, mentre si continua a discutere di come utilizzare i profitti degli asset russi congelati in Europa. Un nodo su cui c'è il consenso politico dei Grandi ma che presenta problemi tecnico-legali che gli sherpa stanno tentando di sciogliere fino all'ultimo minuto. La bozza di dichiarazione finale circolata sui media ribadisce inoltre l'appoggio dei Sette alla roadmap per Gaza delineata da Biden, ora forte anche del sostegno del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Il G7 chiederà ad Hamas di accettare l'accordo di cessate il fuoco e a Israele di allentare l'escalation di una «offensiva militare su vasta scala» a Rafah, in linea con le indicazioni provvisorie ordinate dalla Corte internazionale di giustizia dell'Aja. Molte le bilaterali previste a Borgo Egnazia, a cominciare da quello di Meloni con Biden venerdì. Il presidente degli Stati Uniti, il primo cattolico dopo Jfk, vedrà lo stesso giorno anche il Papa, nella prima assoluta di un Pontefice al G7. Francesco è l'ospite d'onore della sessione dedicata all'Intelligenza artificiale, tema voluto dalla premier non senza suscitare la sorpresa di alcuni partner che lo giudicavano prematuro. Voci, bozze, indiscrezioni continueranno a rincorrersi fino all'ultimo giorno, trovando poi conferma o smentita in un testo scritto nero su bianco che Giorgia Meloni spiegherà nella conferenza stampa finale di sabato mattina. 

 

Francia: Macron chiede di unirsi contro estremismi. Repubblicani si spaccano su Le Pen

Il terremoto politico scatenato in Francia dalla decisione di Emmanuel Macron di convocare elezioni parlamentari anticipate continua a dare scossoni. Mentre il presidente ha lanciato la sua campagna elettorale invitando a fare fronte comune e creando una 'terza via' che raccolga consensi a destra e a sinistra contro gli estremismi, il partito conservatore Les Republicains (LR) si è spaccato sull'annuncio del suo presidente Éric Ciotti di un accordo con l'estrema destra del Rassemblement National (RN) di Marine Le Pen in vista del voto. L'ufficio politico dei Repubblicani si è riunito, nonostante Ciotti avesse deciso di chiudere la sede, e ha decretato l'espulsione dello stesso Ciotti. «Sono e rimango il presidente», ha replicato lui in un post su X. Macron ha accusato sia a destra, sia a sinistra, sembrando voler spaccare i fronti che si stanno costituendo dalle due parti e dai quali il macronismo potrebbe rimanere schiacciato alle urne. A destra, ha accusato i Repubblicani e Ciotti di avere fatto «un patto con il diavolo» e di «voltare le spalle all'eredità del generale De Gaulle». A sinistra, ha criticato il 'Fronte popolare', cioè il fronte delle sinistre in via di costituzione fra Partito socialista (PS), Partito comunista (PCF), Ecologisti (EELV) e La France Insoumise (LFI), definendolo indecente in quanto «alleanza elettorale che darà 300 circoscrizioni all'LFI, e quindi a persone che hanno accettato molto chiaramente di non condannare l'antisemitismo. 

Chi è il candidato del blocco di sinistra? È il signor Mélenchon, credo", ha detto Macron, tendendo poi una mano agli elettori che alle Europee hanno votato per Raphaël Glucksmann, che era capolista per il Partito socialista (PS) e Place publique e ha ottenuto il terzo posto. «Come possono gli elettori che hanno seguito Glucksmann alle elezioni europee, ad esempio, sostenere un'alleanza che dà 300 circoscrizioni a La France insoumise?», ha rimarcato. Il Fronte popolare non ha ancora scelto un leader come candidato premier, il socialista Raphaël Glucksmann aveva suggerito il nome del sindacalista Laurent Berger. A destra della destra lepenista, intanto, Marion Maréchal, capolista alle Europee del partito Reconquête di Éric Zemmour e nipote di Marine Le Pen, ha rifiutato la strategia di Zemmour, smarcandosi dalla sua decisione di «presentare il maggior numero possibile di candidati» contro la coalizione guidata da RN. Per lei si tratta di un errore, ha detto, chiedendo poi ai suoi elettori di votare per i candidati della coalizione di destra sostenuti da RN e non per i candidati di Reconquête. Una scelta immediatamente accolta da Jordan Bardella, l'astro nascente del Rassemblement National che Marine Le Pen ha scelto di candidare come premier, il quale ha definito quella di Maréchal «una dichiarazione responsabile che va nella direzione di una dinamica patriottica per vincere e per agire domani». Alle legislative anticipate del 30 giugno e 7 luglio Macron gioca il tutto e per tutto e l'obiettivo è chiaro: non vuole «dare le chiavi del potere a Marine Le Pen nel 2027», cioè l'anno delle prossime elezioni presidenziali. Anche se a condurre la campagna non sarà lui, che ha anche escluso un dibattito con Le Pen, ma piuttosto l'attuale premier Gabriel Attal. In ogni caso, se non dovesse andare come spera - ha chiarito -, le sue dimissioni non sono sul piatto. Un'ipotesi che ha bollato come «assurda».

 

Ue aumenta i dazi su auto cinesi, scontro con Pechino

Stretta Ue alle importazioni delle auto elettriche cinesi con dazi aumentati quasi al 50% per bilanciare un sistema produttivo che secondo Bruxelles è sostenuto artificialmente dai sussidi pubblici della Cina. «Il nostro obiettivo non è chiudere il mercato europeo ai veicoli elettrici cinesi, ma garantire che la concorrenza sia leale», ha affermato il vicepresidente della Commissione Europea con la delega al Commercio, Valdis Dombrovskis. Pechino in tutta risposta ha accusato l'Europa di protezionismo affermando che l'Ue «ha ignorato i fatti e le regole del Wto», intervenendo contro un vantaggio ottenuto invece dalla Cina nei veicoli elettrici con la «concorrenza aperta». Le proteste non si son fatte attendere però anche all'interno dell'Unione. A partire da Berlino, da settimane in pressing sull'esecutivo comunitario per evitare il giro di vite e soprattutto limitarlo il più possibile: «Non abbiamo bisogno di altri ostacoli nel commercio», ha fatto sapere il portavoce del cancelliere Olaf Scholz, invitando la Commissione ad offrire dei colloqui alla Cina. Ha parlato di un «eccessivo protezionismo del piano» anche l'Ungheria, mentre si ritiene sia nettamente contraria anche la Svezia. Per l'Italia il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha invece salutato «con soddisfazione» l'annuncio «per tutelare la produzione europea» puntando a «riaffermare in Italia l'industria automobilistica italiana, uno dei settori trainanti dello sviluppo industriale del nostro Paese a cui non vogliamo assolutamente rinunciare». Stellantis, «in quanto azienda globale», ha fatto invece detto di credere «nella concorrenza libera e leale in un ambiente commerciale mondiale e non sostiene misure che contribuiscono alla frammentazione del mondo». Nel concreto i nuovi dazi aggiuntivi europei arriveranno fino al 38,1%. Dal 10% attuale porteranno dunque le imposte alla dogana sui veicoli elettrici cinesi fino al 48,1%, ovvero quasi la metà del prezzo 'duty free'. Bruxelles ha indicato dazi diversi per i singoli produttori: si va dal 17,4 per Byd, al 20% di Geely e al 38,1% per Saic. Saranno poi del 21% i dazi aggiuntivi per le case che hanno collaborato all'indagine, anche le grandi aziende europee che producono in loco. Mentre scatterà il 38,1% in più per quanti non han collaborato. 

Tesla, il colosso dell'elettrico di Elon Musk, ha chiesto per la propria produzione a Shanghai tariffe ad hoc e inferiori. Secondo la Commissione europea non ci sono criticità che possano rendere contestabile l'esito dell'indagine avviata in autunno, che ritiene documentata e a prova di Wto. «Non abbiamo avuto altra scelta se non quella di agire di fronte all'impennata delle importazioni di veicoli elettrici a batteria fortemente sovvenzionati» dalla Cina, ha segnalato Dombrovskis. «Queste distorsioni incidono negativamente sulla parità di condizioni nel mercato unico e nei mercati globali e danneggiano le imprese dell'Ue». Partirà ora un dialogo con Pechino e le nuove tariffe dovrebbero entrare formalmente in vigore a inizio luglio anche se l'indagine proseguirà fino a inizio novembre, quando i dazi diventeranno definitivi. Tutti gli occhi sono ora puntati sulle possibili reazioni di Pechino, che ha annunciato recentemente un'indagine per dumping sul brandy europeo, soprattutto francese. Proprio la Francia è però tra i Paesi a spingere maggiormente per l'innalzamento dei dazi sui veicoli elettrici cinesi. Oggi Pechino applica tariffe alla dogana del 15% sui veicoli europei. Un mese fa gli Usa hanno annunciato un aumento dal 25 al 100% dei dazi sui veicoli elettrici cinesi. La Commissione Ue stima che in tre anni la quota di mercato dei veicoli elettrici cinesi sia passata dal 3,9 al 25% nell'Ue e vede un rischio dalla concorrenza sleale cinese che può costare 2,5 milioni di posti di lavoro in Europa, con un indotto di altri 10,3 milioni di posti.

 

Israele bombarda il sud della Striscia di Gaza

L'esercito israeliano ha bombardato oggi il sud della Striscia di Gaza dopo un giro in Medio Oriente da parte del capo della diplomazia americana Antony Blinken che cerca di garantire un accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Un intenso fuoco di artiglieria ed attacchi di elicotteri israeliani sono stati registrati nel settore di Rafah, all'estremita' meridionale del territorio, vicino al confine con l'Egitto. Hezbollah libanese, alleato di Hamas, ha lanciato mercoledì una pioggia di razzi sul nord di Israele e ha promesso di intensificare i suoi attacchi per vendicare la morte di un alto comandante militare ucciso il giorno prima in un attacco israeliano mirato nel sud del Libano. Giovedì mattina presto, le sirene di allarme missilistico suonavano ancora nel nord di Israele, secondo l'esercito. E nello Yemen, i ribelli Houthi, alleati anche di Hamas palestinese, hanno rivendicato l'attacco che ha danneggiato una nave mercantile greca nel Mar Rosso sospettata, secondo loro, di legami con Israele. Concludendo a Doha un giro di quattro paesi della regione, compreso Israele, Blinken ha affermato che il suo paese lavorera' con gli altri paesi mediatori - Qatar ed Egitto - per raggiungere un accordo di cessate il fuoco. «Piu' a lungo dura questa (guerra), piu' persone soffriranno, ed è ora di fermare le contrattazioni», ha detto.

 

Rissa alla Camera sull'autonomia, colpito deputato M5s

Le due riforme del centrodestra, premierato e autonomia, compiono un passo avanti verso l'approvazione, ma in un clima ad alta tensione, che culmina con una rissa alla Camera con un deputato pentastellato colpito da un leghista e portato fuori dall'Aula in carrozzina. Che i nervi siano a fior di pelle lo si capisce quando il deputato leghista Domenico Furgiuele fa il segno della X Mas rivolgendosi ai banchi delle opposizioni che ostentano il tricolore e cantano 'Bella ciao'. Un anticipazione di quanto poco dopo si scatenerà: il deputato Donno cerca infatti di consegnare un tricolore al ministro Calderoli subito “protetto” dai compagni di partito. E immediata si scatena una maxi-Rissa a fatica domata dai commessi. A farne le spese è lo stesso Leonardo Donno finito a terra e minacciosamente circondato anche da altri parlamentari della maggioranza. Uno scontro impressionante le cui immagini sono circolate sul web. 

«Non passerete, vergogna» ha detto Giuseppe Conte, mentre Alessandra Maiorino ha parlato di «violenza squadrista». Tornata la calma iniziano le accuse reciproche. Donno annuncia di stare bene dopo un elettrocardiogramma spiegando la dinamica: «ho preso un pugno che mi ha sfiorato la faccia dal deputato Iezzi, altri ci hanno provato come Mollicone, Candiani. Poi sono arrivati tanti altri, i commessi....io sono crollato, sentivo male al petto e facevo fatica a respirare». Il leghista Iezzi invece smentisce ma non del tutto: «Ho provato a dare cazzotti, ma non l'ho colpito. Donno ha tentato di aggredire Calderoli e ho reagito. Io mi allontano e lui dopo cade come una pera. Andrebbe condannata la sua sceneggiata». La verità è ora all'esame del presidente della Camera Lorenzo Fontana: i filmati sono stati acquisiti e la seduta ovviamente sospesa. «Non è possibile riprendere i lavori in questo clima di crescente violenza verbale e addirittura fisica«, aveva infatti detto poco prima la segretaria del Pd Elly Schlein fuori dall'aula di Montecitorio subito richiamando alla memoria i pochi giorni passati dalla cerimonia per i cent'anni dall'omicidio di Matteotti. Temperature alte anche in Senato. Palazzo Madama ha approvato il cuore del premierato, vale a dire l'articolo che introduce il principio dell'elezione diretta del premier, ed ha iniziato l'esame dell'altro pilastro della riforma, l'articolo che regola le crisi di governo. Un passo importante avvalorato dalla conferma che il testo sarà approvato il 18 giugno, in contemporanea al via libera alla Camera dell'altra riforma, l'autonomia differenziata. Un percorso parallelo che rinsalda il patto politico della maggioranza, ma che contribuisce anche a compattare tutte le opposizioni, che su entrambe le riforme hanno condotto con grande consonanza una battaglia, anche a suon di proteste plateali in Aula. Le proteste che tutte le minoranze, da Avs a Iv e Azione, hanno inscenato in Senato sono avvenute quando la maggioranza ha approvato l'articolo 5 del ddl Casellati: i senatori d'opposizione hanno esposto cartelli che hanno condotto ad una sospensione della seduta. Al di là dell'ostilità al principio dell'elezione diretta del Presidente del Consiglio, previsto dall'articolo, le proteste hanno riguardato il fatto che il testo non dice come tale elezione avverrà, visto che esso rinvia ad una successiva legge ordinaria. Tutti i gruppi di minoranza hanno ripetutamente chiesto alla ministra Maria Elisabetta Casellati di rassicurare su un punto, che occorrerà la maggioranza dei voti dei cittadini al candidato premier per essere eletto, in assenza della quale si ricorrerà al ballottaggio. Nel pomeriggio, quando si esaminava il successivo articolo, Casellati è intervenuta attaccando le opposizioni con tono animato, ribadendo che la legge elettorale per il premier e per il Parlamento, sarà presentata dopo la prima lettura della riforma. «Avrei voluto discutere su una proposta alternativa che non c'è stata, e non avrei voluto discutere su numeri» dei molti emendamenti ostruzionistici. «Non accetto lezioni di democrazia da chicchessia su una legge che non prospetta nessuna deriva autoritaria». Parole che hanno riacceso gli animi. Il cammino verso l'approvazione il 18 giugno è facilitato dal contingentamento dei tempi, con l'esaurimento di quelli a disposizione delle opposizione, anche se il presidente Ignazio La Russa ha concesso ad esse altre due ore. «Servirebbero semmai altre due settimane» ha obiettato Francesco Boccia, capogruppo del Pd. 

 

Salvini e Le Pen provano la spallata, 'destre unite'

Venticinquesimo piano del The Hotel, zona commerciale di Bruxelles. L'albergo è lo stesso che, qualche anno fa, ospitò Donald Trump. Al suo interno, questa volta, c'è il gotha del sovranismo europeo. Ci sono la zarina di Francia, Marine Le Pen e il segretario della Lega Matteo Salvini. I leader arrivano dalle Fiandre, dal Portogallo, dalla Repubblica ceca. Entrano sorridenti, forti di un risultato elettorale che potrebbe portare il gruppo Identità e Democrazia ad avere oltre settanta eurodeputati, con il possibile rientro dei tedeschi di AfD. L'obiettivo è costruire un fronte unico delle destre e dare una spallata alla maggioranza Ursula. Che si tratti di un gruppo unico o meno con Ecr, al momento è secondario. Anche perché l'ipotesi per ora non entusiasma né i Conservatori né Fratelli d'Italia. Il vertice dei sovranisti è preceduto da un faccia a faccia tra Salvini e Le Pen. I due, spiegano fonti della Lega, siglano una sorta di patto, costruito su tre pilastri: «Unità del centrodestra, nessuna apertura a maggioranze con la sinistra, determinazione a cambiare l'Europa». Poco dopo, nel vertice allargato, lo spartito non cambia. Ursula von der Leyen è il nemico comune. Emmanuel Macron, in un video pubblicato da uno dei partecipanti, diviene perfino oggetto di sfottò. «Grazie Macron, un ottimo avversario», ridono i convitati. Oltre a Salvini e Le Pen, c'è l'olandese Geert Wilders, trionfatore delle ultime elezioni in Olanda, il ceco Tomio Okamura, l'eurodeputato degli austriaci di Fpo Harald Vilimsky. E poi il presidente di Id Gerolf Annemans, il l'astro nascente dei fiamminghi di Vlaams Belang Tom Van Grieken, il danese Morten Messerschmidt, il leader di Chega André Ventura, che prima di entrare all'incontro boccia sonoramente l'ipotesi del suo connazionale Antonio Costa a capo del Consiglio europeo. Nessuno di questi movimenti vuole entrare in una maggioranza per l'Ursula bis. Anzi, quella maggioranza la vuole sovvertire. Ed è qui che si nasconde la distanza di Id dai Conservatori e Riformisti. 

Il gruppo guidato da Giorgia Meloni, riunitosi nel pomeriggio, si sta muovendo con estrema prudenza nel post-Europee. Per il momento, ha incassato l'ingresso di 4 nuove delegazioni (ognuna di un eurodeputato), da Croazia, Lussemburgo, Lettonia e Cipro. Il gruppo conta ora su 77 eletti, due in meno dei Liberali. L'ingresso di Viktor Orban, al pari del gruppo unico con Id, non è argomento su cui c'è il necessario consenso. Se entrasse Fidesz, tanto per fare un esempio, la delegazione ceca guidata dal premier Fiala farebbe i bagagli in direzione Ppe. Il tema di fondo resta uno: essere in una posizione di dialogo con i Popolari e quindi anche con la Commissione che verrà o saltare la barricata nella speranza di avere una Francia guidata da Le Pen. Del resto, la stessa leader del Rassemblement National negli ultimi mesi ha smesso i vestiti della barricadera e ha guidato la cacciata di AfD dopo Le affermazioni negazioniste di Maximilian Krah. Eppure, dopo aver a loro volta espulso Krah, l'ultra destra tedesca potrebbe tornare in Id. Al vertice di Bruxelles se ne è parlato, concludendo che è meglio attendere Le elezioni in Francia. Certo, i tedeschi contano su 16 eurodeputati. Altri, dal limbo dei non iscritti, potrebbero arrivare presto. Il terzo posto non è solo un obiettivo di Ecr, ma anche del gruppo di Le Pen e Salvini.