Un romanzo-inchiesta scava nella vicenda del broker. Dai milioni mai restituiti ai personaggi famosi alla morte misteriosa. L’autore racconta il suo lavoro

Come mai una fetta importante della classe dirigente italiana si era fatta turlupinare da un pifferaio magico che aveva proposto ai suoi componenti il più incredibile e palesemente falso degli affari? Questa era la domanda che mi tormentava il 20 giugno del 2022, due anni fa, quando alla radio avevo sentito la seguente notizia: «È morto ieri in un incidente stradale sulla Salaria Massimo Bochicchio, il broker dei vip. Aveva truffato i suoi clienti per un miliardo e ottocento milioni di lire promettendo interessi tra il dieci e il venti per cento senza rischi. Oggi sarebbe dovuto comparire all’udienza del processo in cui è accusato di riciclaggio internazionale».

 

La cifra era mirabolante, dietro doveva esserci una grande storia che valeva la pena di indagare. Mi sono procurato le carte, migliaia e migliaia di carte, delle tre inchieste aperte a Roma, Milano e Londra. Le ho lette tutte. Ho intervistato decine di persone coinvolte a vario titolo. E ne è emerso un quadro stupefacente. Da meritare un lungo racconto perché definiva uno dei mali della contemporaneità, l’ingordigia di denaro, il desiderio della sua moltiplicazione facile attraverso la finanza di rapina che droga i mercati e incide sui meccanismi delle decisioni politiche.

 

“Ingordigia” è il titolo del mio libro (Mondadori). Avevo anche una seconda opzione, più pop se vogliamo: «C’ho un amico che…». Perché è proprio attraverso il meccanismo del passaparola, secondo il classico schema Ponzi, che il truffatore ha allargato la sua larga rete di investitori, convinti che per loro l’incredibile potesse essere vero in quanto esponenti di una classe fortunata a cui erano concessi privilegi sconosciuti ai comuni mortali. Un diritto di censo, addirittura.

 

Usando la tecnica della letteratura del vero, cioè scrivendo in forma di romanzo solo fatti accertati, ho dunque ricostruito la parabola di Massimo Bochicchio, un Bel Ami contemporaneo simile al personaggio di Guy de Maupassant. Originario di Capua, figlio di un carabiniere, sportivo, di gradevole aspetto, è approdato nella Roma da bere degli Anni Novanta, nell’era della deregulation più totale della finanza internazionalizzata. Si poteva fare denaro a palate, violando qualsiasi regola etica, bastava andare a cercarlo. Il nostro Bel Ami ha da subito individuato il quadrante più ricco della Capitale, i Parioli, come terreno di caccia. Non trascurando alcuno degli atout che gli servivano per accreditarsi. La frequentazione dei circoli top sul Tevere, amici importanti come Giovanni Malagò, attuale presidente del Coni, una fidanzata di ottima famiglia come Barbara Pontecorvo e poi una moglie, Arianna Iacomelli, miss Roma e seconda al concorso di miss Italia del 1990. Elementi a corredo di un’indubbia simpatia, capacità affabulatoria, conoscenza delle debolezze umane da psicologo con l’esperienza della strada. Tanto da essere considerato, anche ora, «un genio» dalle persone che sono state raggirate. Per certi suoi eccessi gli era stato appiccicato un nomignolo eloquente «er Fanfara», ma nemmeno questo dettaglio è servito per frenare la corsa dei clienti verso il suo ufficio.

 

Poteva essere fermato se fosse stato dato un giusto peso a un “incidente” di percorso per cui già sul finire dello scorso millennio era stato radiato dalla Consob per avere falsificato le firme di alcuni clienti, salvo essere riammesso qualche anno dopo per motivi rimasti oscuri. Roma gli stava stretta ed eccolo approdare su piazze più illustri per le Borse, prima Milano, poi Londra, l’assunzione con un ruolo di prestigio in Hsbc, la seconda banca privata più importante al mondo, nonostante il suo curriculum non fosse immacolato.

 

Questi i suoi biglietti da visita quando è uscito dall’istituto di credito per mettersi in proprio e toccare l’apogeo della sua parabola. Nella sua rete, professionisti, imprenditori, ambasciatori, consoli, procuratori sportivi, calciatori, allenatori come Marcello Lippi e Antonio Conte. Per convincere quest’ultimo a dargli 30,8 milioni di euro, ha assunto il fratello Daniele. In ogni occasione estraeva dalla tasca il jolly per vincere le resistenze. Appena acquistata una casa a Cortina è riuscito a farsi ridare parte del denaro dai venditori. Non ha risparmiato nemmeno i parenti (il fratello della moglie, ad esempio) o i ragazzi che con lui giocavano a beach volley al bagno Albos di Fregene, o il professionista che lo ha guarito dal mal di schiena e si è preso cura dei suoi cari.

 

Quanti in totale sono caduti nella sua rete? Impossibile dirlo perché molti avevano, parole sue, il «tallone d’Achille» cioè erano impossibilitati a denunciarlo in quanto il loro denaro era in nero, capitali costituiti all’estero e mai dichiarati al fisco.

 

Per vent’anni è riuscito a farla franca. Vent’anni durante i quali ha vissuto da nababbo, case a Roma, Capalbio, Cortina, Londra, Miami, barche, gioielli, orologi preziosi, decine e decine di quadri di arte contemporanea degli artisti più quotati. Poi le prime richieste di rientro, diventate insostenibili durante il periodo del Covid quando in troppi hanno cercato di monetizzare perché non si sa mai. Da qui la fuga, sempre accompagnata dalla promessa che sarebbe riuscito prima o poi a risarcire tutti. Una latitanza conclusasi con la resa, il processo, la morte e i dubbi sullo strano incidente. Senza fare troppo spoiler dirò solo che di nemici ne aveva parecchi.

 

Uno dei motivi per cui mi sono occupato della vicenda era la volontà di mettere in guarda i lettori, svelare i meccanismi della truffa per renderli edotti dei metodi degli imbonitori. Da questo punto di vista uno sforzo inutile. L’ingordigia non ha memoria. Dieci anni prima dell’esplosione del caso Bochicchio, a Roma, nello stesso quartiere e grosso modo fra la stessa gente, era attivo Gianfranco Lande, il Madoff dei Parioli. Era ancora fresco il ricordo di come aveva dilapidato centinaia di milioni dei suoi clienti: non è servito a evitare che si ripetesse.