L'anniversario

Mario Paciolla, 4 anni senza verità: «Non fu suicidio, è stato ucciso: l'Onu rompa il silenzio»

di Antonella Napoli   15 luglio 2024

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Il cooperante venne trovato morto in Colombia il 15 luglio 2020. Per le Nazioni Unite e per i pm di Romafu si è tolto la vita. Ma per i genitori ci sono troppe anomalie: «Fu un omicidio». Nell'anniversario del ritrovamento, parlano i suoi genitori

Anna Motta e Pino Paciolla hanno lo stesso sorriso gentile del figlio Mario. Lo stesso sguardo fiero: quello di genitori che sanno, sono certi che il loro ragazzo non si sia ucciso in Colombia, come sostengono burocrati delle Nazioni Unite che hanno frettolosamente archiviato il caso come «suicidio». Lo scorso 14 giugno, anche la Procura di Roma ha chiesto, per la seconda volta, l’archiviazione dell’inchiesta in Italia. La famiglia ha presentato opposizione all’ufficio del gip del Tribunale di Roma, che dovrà esprimersi al riguardo.

 

Mario Paciolla moriva quattro anni fa, il 15 luglio, a San Vicente del Caguán. Il cooperante dell’Onu fu trovato senza vita nel suo appartamento con un lenzuolo attorno al collo. Sulla base dei rilievi dell’autopsia e degli elementi acquisiti dalle legali della famiglia, le avvocate Alessandra Ballerini ed Emanuela Paciolla, Mario non sarebbe morto suicida: i suoi piedi toccavano il pavimento e il lenzuolo pendeva da una grata sotto il soffitto. Essendo il 33enne napoletano alto poco più di un metro e sessanta, non avrebbe potuto appenderlo da solo neanche salendo su un tavolo o su una sedia. C’è poi il ruolo oscuro di Christian Thompson Garzón, ex militare e addetto alla sicurezza della Missione Onu.

 

Assieme a quattro poliziotti colombiani, l’uomo è stato accusato di «inquinamento delle prove», da lui fatte sparire. Thompson avrebbe omesso la consegna alla Procura colombiana dei dossier di Paciolla sui viaggi nel Paese tra l’agosto 2019 e il luglio 2020. Report che documenterebbero un raid aereo, il quale aveva causato la morte di almeno otto bambini reclutati dalle Farc e altre violazioni perpetrate dalle forze militari colombiane.

 

Per queste e molte altre evidenze, i genitori di Mario continuano a ritenere che il figlio non si sia suicidato. A L’Espresso, Anna e Pino spiegano perché si oppongono alla richiesta di archiviazione della Procura di Roma.
«La decisione dei magistrati ci ha lasciati basiti. Dopo i primi momenti di smarrimento, abbiamo subito ripreso il percorso di verità per Mario e dato mandato alle nostre avvocate, che saranno coadiuvate da tecnici di nostra fiducia, per opporsi all’archiviazione. Siamo determinati perché abbiamo la certezza dell’omicidio di nostro figlio. Questa certezza si rafforza con il passare dei giorni perché con maggiore lucidità ripensiamo a ciò che Mario ci diceva. A ciò che gli è successo prima e dopo la morte, più precisamente negli ultimi cinque giorni di vita».

 

Un’immagine privata di Mario a Napoli

 

Quali sono gli elementi principali su cui si fonda l’opposizione all’archiviazione?
«Prima di tutto, ribadiamo con forza l’attaccamento di Mario alla vita, la sua gioia di stare al mondo e soprattutto l’amore per la sua famiglia, i suoi amici, la sua città. Mai avrebbe potuto darci un così grande dolore. In quei cinque giorni ci disse che aveva avuto una discussione con i suoi superiori, i quali avevano minacciato che gliel’avrebbero fatta pagare, facendo riferimento a fatti della sua vita passata. Mario, il 14 luglio alle 00.30 (ora italiana), aveva acquistato un biglietto aereo e scritto una mail all’ambasciata italiana per informarla che stava lasciando la Colombia. Da queste azioni all’ora presunta della sua morte, sono intercorse circa due ore. Tempo che lui avrebbe impiegato per pensare, programmare e realizzare il suo suicidio. In quei cinque giorni lo abbiamo visto preoccupato. Conoscendolo bene, mai abbiamo pensato a un gesto autolesivo e nessuno in buona fede può affermare di avere avuto un sentore del genere. Temevamo per la sua vita, questo sì. Avevamo paura che qualcuno potesse ucciderlo. Mario aveva capito che era in pericolo. L’autopsia sul suo corpo fornisce dettagli che lasciano pochi dubbi».

 

Siete mai stati sentiti dai magistrati?
«Siamo stati ascoltati dai carabinieri del Ros e dalla Questura di Napoli nell’immediatezza della morte di nostro figlio. Ma non siamo mai stati sentiti dai magistrati che indagano sulla morte di Mario. Abbiamo conosciuto una procuratrice che indagava e che ha risposto ad alcuni quesiti su cui continuiamo a interrogarci. Molti dubbi ancora ci tormentano».

 

Pino Paciolla e Anna Motta, i genitori di Mario, all’inaugurazione del murale dedicato al figlio

 

Mario era impegnato a San Vicente del Caguán nella tutela delle famiglie delle vittime della rappresaglia paramilitare. Ritenete che ci sia un nesso con la sua morte?
«Abbiamo alcune certezze, a fronte di fatti che ci lasciano molte perplessità. Mario era cooperante in una missione Onu di verifica degli accordi di pace, con regolare contratto per due anni in scadenza il 20 agosto 2020. Allora eravamo in tempi di pandemia e la sua organizzazione, la stessa che gli preparava le autorizzazioni per poter viaggiare e rientrare in Italia, era l’unica a sapere della partenza con un volo umanitario da Bogotà a Parigi del giorno 20 luglio. Probabilmente era l’unica a sapere dell’acquisto del biglietto da parte di Mario per tornare in Italia. Sappiamo anche che nessun protocollo internazionale è stato rispettato dopo la sua morte. Nelle ore immediatamente successive al ritrovamento del corpo non venne avvertita l’ambasciata del decesso di un cittadino italiano per morte violenta. Morte che da subito l’Onu derubricò come suicidio. Ma la cosa più grave è che, a 48 ore dal ritrovamento, l’addetto alla sicurezza della missione (Thompson, ndr) ripulì con acqua e candeggina l’appartamento privato di Mario, cancellando eventuali tracce di sangue, e buttò in discarica alcuni oggetti appartenuti a nostro figlio, eliminando così ciò che oggi sarebbe stato necessario, fondamentale per le indagini. Come mai questa persona ha trattenuto le chiavi della casa? Come mai questa pulizia così frettolosa? Perché gettare oggetti che erano appartenuti a Mario e, soprattutto, senza attendere il referto autoptico per l’accertamento delle circostanze di una morte violenta? Un’organizzazione così importante è al corrente delle procedure corrette da eseguire in casi come questo. Sono quindi molto gravi, a nostro parere, questi comportamenti».

 

Vi sentite sostenuti dalle istituzioni italiane o avvertite una sorta di sudditanza nei confronti dell’Onu?
«Questo non possiamo dirlo. Ma è vero che la politica si è interessata poco al caso. Quando è arrivato il feretro di Mario a Roma, ad accoglierlo c’era l’allora ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che ci assicurò il suo interessamento personale. In seguito siamo stati ricevuti alla Camera dal presidente Roberto Fico, che ancora oggi ci sostiene nelle iniziative per Mario. Abbiamo avuto un incontro con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Alcuni deputati hanno fatto interrogazioni parlamentari e lo scorso marzo siamo stati ascoltati dalla commissione Diritti umani del Senato. Ma a tutto questo non sembra ci sia stato alcun seguito».

 

Che atteggiamento ha assunto l’Onu, dal 15 luglio 2020 a oggi, nei vostri confronti?
«L’Onu non si è mai interfacciata con noi o con le nostre avvocate. Dopo la drammatica comunicazione del 15 luglio 2020, quando una persona che si qualificava come legale dell’Onu ci informava della morte di nostro figlio, dicendo che «si era suicidato», e ci chiedeva incredibilmente se volessimo la restituzione del corpo, c’è stato un silenzio assordante da parte dell’organizzazione. Eppure, nostro figlio era un morto sul lavoro. Infine, non ci è mai stato concesso di leggere gli atti dell’indagine interna».

 

A fronte di tutti gli elementi acquisiti, che idea vi siete fatti sul motivo della morte di Mario?
«Conoscevamo bene nostro figlio, le sue competenze, la sua preparazione professionale, ma soprattutto la sua integrità morale e intellettuale. Sappiamo che non tollerava le ingiustizie, che era sempre schierato dalla parte dei più deboli; la sua etica professionale, anche come giornalista, ci dà la certezza che mai sarebbe sceso a compromessi con la sua coscienza».

 

Vi siete appellati a chi sa qualcosa affinché non si nasconda dietro all’omertà. Avete mai ricevuto riscontri?
«Nessuno. Ma siamo certi che chi lavorava con Mario conosca e nasconda la verità. Sappiamo che più volte aveva chiesto di essere trasferito, che la squadra con cui stava lavorando non gli piaceva. Immaginiamo che in quella zona si adottassero pratiche e comportamenti su cui Mario non era d’accordo. Sentiva il suo essere lì, in quel posto, privo di ragioni e motivazioni. Nostro figlio aveva una formazione e una visione diversa su come svolgere fino in fondo e correttamente il suo lavoro. Forse non era allineato con i comportamenti dell’organizzazione. A dicembre del 2019, quando è venuto per l’ultima volta in Italia, ci disse chiaramente: “Se l’Onu mi vuole coinvolgere, io me ne vado”. Carpimmo la sua insoddisfazione, ma non ci rivelò le motivazioni».

 

Credete che sia possibile svelare le verità nascoste dietro alla morte di vostro figlio?
«Purtroppo non abbiamo una verità processuale, ma, seppure a fatica, la stiamo cercando. E continueremo a farlo».

 

In queste ultime parole, tutta la forza e tutto il coraggio dei genitori di Mario.