Olimpiadi 2024/2

A Parigi gli azzurri si battono per l’oro mentre il calcio italiano rimane a casa a litigare

di Gianfrancesco Turano   26 luglio 2024

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Il fallimento di Euro 2024 non ha cambiato le regole. Nessuno si dimette, nessuno dà spiegazioni del fallimento. In compenso, si prepara l’ennesima, fondamentale riforma in modo che il governo si prenda anche la Figc

Non ci saranno calciatori dietro la bandiera italiana che sfilerà allo Stade de France di Parigi nelle mani di Arianna Arrigo e a Gianmarco Tamberi, campioni di scherma e salto in alto. L’ultima qualificazione della nazionale olimpica risale al 2008, sedici anni fa, prima che ci prendessimo gusto e iniziassimo a non qualificarci neppure ai Mondiali. Nella migliore delle ipotesi andremo a Los Angeles nel 2028, dopo vent’anni. Ma è tutto da vedere. Entrare nelle sedici del torneo di calcio olimpico è molto più difficile rispetto a essere ammessi ai Mondiali, che dalla prossima edizione del 2026 saliranno da 36 a 48 partecipanti, o agli Europei a 32 squadre appena conclusi in Germania con la vittoria della Spagna.

 

Anche l’eccellenza dello sport italiano al femminile non vale per il calcio che mette in gioco la medaglia d’oro dai XXVI Giochi del 1996 senza che le azzurre abbiano mai avuto la possibilità di giocarsela.

 

È vero che ai Giochi, di solito, vanno selezioni strane, un po’ giovanili, un po’ con fuori quota, un po’ come pare alle federazioni. Ma la crisi delle rappresentative del calcio italiano è lo specchio di un mondo impegnato in una delle sue eterne e inutili riforme dove i grandi club vogliono contare più dei piccoli, i piccoli non vogliono contare meno dei grandi, la Lega di serie A vuole contare di più della Figc, la Figc vuole contare più della Lega e il ministro dello sport Andrea Abodi vuole contare più di tutti. La regola ferrea di questa ammuina borbonica è che a nessuno passa per la testa di dimettersi, come ha fatto il commissario tecnico inglese Gareth Southgate dopo la finale di Euro 2024 persa contro la squadra nettamente più forte del torneo.

 

La Spagna, appunto. Le furie rosse hanno dimostrato di sapere superare le fasi fisiologiche fra l’invecchiamento della generazione Busquets, Xavi, Iniesta, Ramos, Piqué e il lancio di ragazzi che non hanno solo i mezzi tecnico-atletici per vincere. Hanno la voglia di giocare che i nostri calciatori sembrano avere perso dopo la vittoria miracolosa di Euro 2020 a Wembley con Roberto Mancini. La Liga spagnola è riuscita a tenersi lontana dal modello autodistruttivo della Premiership inglese che fa spettacolo e soldi ma propone una nazionale di spompati e mezzi giocatori. Soprattutto la selección si è tenuta lontana dagli scandali a ripetizione della sua stessa Federcalcio nazionale, con sette arresti a marzo per la Supercoppa venduta ai sauditi in cambio di mazzette, con lo scandalo della corruzione arbitrale nel 2023 e con le dimissioni del presidente Luís Rubiales per il bacio alla capitana spagnola dopo la vittoria al Mondiale dell’anno scorso.

 

C’è chi accusa l’Italia del calcio di non essere abbastanza multietnica. Di sicuro, il sistema calcistico è altamente relazionale. In altre parole, contano le conoscenze, gli appoggi, le raccomandazioni, il famigerato “procuratore giusto”. Con queste premesse un ragazzo che viene dall’emigrazione trova più facile imporsi in sport dove l’opinabilità del rendimento non esiste.

 

A guardare l’erba del vicino, nella Spagna multietnica si è rivista la scena un po’ stucchevole della Francia black-blanc-beur (neri, bianchi, maghrebini) vincitrice al Mondiale nel 1998. In effetti, le due ali Lamine Yamal e Nico Williams hanno radici africane, come Mario Balotelli, grande illusione tradita del nostro football multietnico. Ma i due centrali di difesa sono francesi bianchi naturalizzati mentre la Francia sempre più black è andata maluccio e le due piccole sorprese Svizzera e Austria hanno fatto bene, rispettivamente, con una squadra a basso contenuto di elveticità e una squadra ricca di cognomi da nazionale di discesa libera.

 

Intanto in Italia si attende il nuovo Baggio o il nuovo Totti con religiosa rassegnazione. Nel frattempo, va in campo una guerra per bande di cui è persino difficile fare la cronaca. Il prossimo obiettivo strategico è la poltrona di vertice in Federcalcio, con le elezioni che seguono il quadriennio Giochi e che riguardano tutte le federazioni iscritte al Coni. Il presidente in carica, Gabriele Gravina, è una sorta di Joe Biden in versione calcistica: nemmeno i suoi sostenitori credono più in lui. Il governo cerca un uomo di fiducia. Il bel gioco può aspettare.