Uno straniero a Parigi

La nuova disciplina olimpica è la guerra di religione

di Riccardo Romani   28 luglio 2024

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Dal discusso hijab di Sounkaba Sylla, all'ira dei vescovi per la Cena queer, ai Giochi volano medaglie di suscettibilità

C’è solo una cosa che spaventa gli organizzatori dei Giochi di Parigi, più della possibilità che l’Olimpiade possa subire un attacco terroristico. Questa cosa si chiama hijab. Sounkaba Sylla, 26 anni, potente sprinter della squadra di atletica, aveva fatto scattare gli allarmi qualche settimana fa annunciando che alla cerimonia inaugurale sarebbe andata indossando – come fa abitualmente – l’hijab, il velo islamico. Apriti cielo.

La prima reazione della squadra olimpica francese è stata quella di spingere Sounkaba fuori dal battello. Secco il comunicato: “Il nostro team segue un rigido principio di secolarismo che include l’assoluta messa al bando dell’hijab, una regola che è parte del DNA del Comitato Olimpico”.

Seguono accuse pubbliche di razzismo da parte di svariate associazioni musulmane, minacce di interrogazioni parlamentari (se ci fosse un governo…) e via incendiando la questione che in Francia è delicata.

Dopo giorni di fitte trattative e richiami alla calma in cui è dovuto intervenire persino il Ministro dello Sport francese, si è giunti al compromesso annunciato dalla stessa Sounkaba: «Ringrazio il supporto del pubblico. Mi è stato offerto di sostituire l’hijab con altro indumento alla fine ho accettato di indossare un cappellino».

Il sacro principio di “laicità” di cui la Francia è tanto orgogliosa è salvo per miracolo.

 

 

Stupisce dunque come lo stesso Comitato Olimpico si sia distratto fatalmente durante le prove dello spettacolo diretto da Thomas Jolly. (Un indizio: il talentuoso regista cresciuto a La-Rue-Saint-Pierre, minuscolo villaggio bretone senza negozi ne palestre ma soltanto una chiesa).

Il suo quadro evocativo dell’ultima cena di Leonardo riprodotta con personaggi del mondo queer ha aperto la seconda guerra di religione di queste prime 48 di Olimpiade. Un record.

 

A scatenarla stavolta ci ha pensato la Conferenza Episcopale francese spiegando in una nota che tutti i cristiani di ogni continente si sono sentiti profondamente feriti da questa scena blasfema. “Deploriamo queste scene di derisione e scherno”.

Al momento non era sembrato tutto questo scandalo, forse per colpa della pioggia che aveva intontito i presenti. I siti esteri come The Guardian pur criticando la serata, avevano sorvolato. Le Monde era passato oltre mentre il più conservatore Le Figaro aveva liquidato la cosa con un laconico “inutile provocazione”. La mattina seguente però i vescovi si sono risvegliati con un forte dolore nell’animo.

Jolly ha ribattuto che non vi era alcuna intenzione blasfema, che voleva parlare di inclusione estrema: “L’amore deve essere universale anche nel senso che ciascuno deve essere libero di amare chi vuole”.

Ma qui di amore ne circola assai poco e quando gli ecumenici hanno rincarato la dose dicendo che «è indegno celebrare lo spirito olimpico sostituendo il Cristo con una donna obesa» a imbufalirsi ci hanno pensato le associazioni che si battono contro il body shaming. Aggettivi come “bigotti” e “retrogradi” (gli unici qui pubblicabili) sono volati sui social come giavellotti.

 

Se la suscettibilità fosse disciplina olimpica, saremmo al cospetto di una serie di potenziali medagliati. Che tempi meravigliosi dovevano essere quelli dei Giochi di Parigi (del 1924 però) quando uno sprinter scozzese, Eric Liddel, rinunciò a gareggiare – e probabilmente a vincere – la finale dei 100 metri perché si disputava di domenica e a lui, missionario cattolico, era proibita qualsiasi attività. Al suo posto vinse il rivale ebreo Hans Abrahams. Ci hanno fatto un film nel 1981, Momenti di Gloria. Vinse quattro Oscar. Oggi forse lo brucerebbero a Place de la Concorde.

 

Il caro vecchio De Coubertin quando scrisse la carta olimpica nel 1894, lo disse chiaro e tondo: “La prima ed essenziale caratteristica dei Giochi Olimpici è quella di rappresentare una religione ben sopra a quella di qualsiasi chiesa, la religione superiore della nostra umanità”.

Dopo 130 anni dobbiamo ancora metterci d’accordo però di quale religione stiamo parlando.