L’opera finanziata con i fondi Pnrr si è bloccata due mesi dopo l’apertura del cantiere. Politici e burocrati temono conseguenze penali. E il consorzio Breakwater guidato da Webuild già chiede 180 milioni di spese aggiuntive su 1,3 miliardi di appalti

Il violinista genovese Niccolò Paganini non concedeva bis. Neanche il miracolo del nuovo ponte Morandi, realizzato e inaugurato nei tempi previsti nell’agosto del 2020, si ripeterà con la diga del porto di Genova che doveva essere pronta per il 30 novembre del 2026. Eppure molti dei protagonisti sono gli stessi. È lo stesso il costruttore, il gruppo Webuild che guida il consorzio PerGenova Breakwater con Fincantieri, Fincosit del gruppo Mazzi e Sidra. È lo stesso il commissario straordinario, il sindaco Marco Bucci. Ma il quadro politico-giudiziario non potrebbe essere più diverso dopo l’arresto del presidente ligure Giovanni Toti tre mesi fa con le recenti e soffertissime dimissioni della giunta che porteranno la Liguria al voto il 27-28 ottobre. Una settimana dopo inizierà il processo con giudizio immediato.

 

L’intervento della magistratura ha avuto un effetto risonanza anche sulla diga, opera colossale e incomparabilmente più difficile del nuovo viadotto sul Polcevera. Lunedì 29 luglio, cinque giorni dopo l’affondamento in mare del terzo cassone dei 93 previsti dal progetto firmato da Technital (gruppo Mazzi), la Guardia di finanza si è presentata in Regione per sequestrare carte dopo l’esposto del M5S che denunciava la possibile presenza di fanghi nocivi e pericolosi relativi alla posa dei cassoni. Il rischio che i materiali di dragaggio creino danni gravi all’ecosistema è concreto dopo decenni di attività industriale forsennata. Liberare durante i lavori gli idrocarburi, i metalli pesanti, i residui delle attività del carbonile e altri agenti inquinanti potrebbe avere conseguenze disastrose. Nella migliore delle ipotesi c’è il rischio di finire come con il nodo ferroviario dell’alta velocità a Firenze, quando lo smaltimento dei materiali per il tunnel sotterraneo e per la nuova stazione dell’alta velocità ha provocato un’inchiesta della magistratura e il blocco dei lavori per anni con conseguenze micidiali per i bilanci delle imprese appaltatrici.

 

 

Alla fine, il ragionamento che si raccoglie negli ambienti dell’imprenditoria, della burocrazia e della politica è piuttosto semplice: la Procura non scherza, il modello Genova è al capolinea e la prudenza non è mai troppa. Chi si firma è perduto.

 

 

Per una bizzarra coincidenza, lo stesso giorno del blitz dei finanzieri il Consiglio di Stato ha bocciato il ricorso del consorzio Eteria (Gavio, Caltagirone, Acciona e Rcm) contro Breakwater sulla legittimità della procedura di assegnazione. Ma se ormai il titolare dell’appalto non ha nulla da temere dalla giustizia amministrativa, lo scenario complessivo rimane molto incerto. Le analisi a campione degli scavi sottomarini non sono gratis. Ancora più costosa sarebbe la necessità di scartare il materiale dragato per utilizzare in modo sistematico gli inerti caricati a grande distanza dal bacino portuale genovese, come sta accadendo adesso con ghiaia presa non soltanto da cave liguri, ma anche dalla zona di Piombino e addirittura da Cartagena, città portuale del sud-est della Spagna.

 

Il risultato matematico di questa situazione è che, a poche settimane dalla posa del primo cassone il 25 maggio, Breakwater ha già segnato 178 milioni di euro di riserve su un appalto che vale 1,3 miliardi, tutti pubblici. Le riserve sono le somme aggiuntive che le imprese ipotizzano di chiedere allo Stato per extracosti e imprevisti vari. Nel caso della diga di Genova la cifra sfiora il 15 per cento in tempi da sprint olimpico. È un record anche per l’abituale moltiplicazione delle spese fra preventivo e conto finale. Insomma, le critiche mosse lo scorso marzo dall’Anac sull’aumento dei prezzi, duramente contestate dal governo, si sono rivelate profetiche.

 

Tira una brutta aria anche fra il consorzio Breakwater e l’autorità portuale che pure è un’anatra zoppa dopo il passaggio di consegne fra Paolo Emilio Signorini, incarcerato a maggio, e Paolo Piacenza, anch’egli indagato per i favori agli Spinelli, il padre Aldo e il figlio Roberto, da decenni signori delle banchine sotto la Lanterna. Anche i ministeri competenti, le infrastrutture del vicepremier leghista Matteo Salvini e l’ambiente del forzista Gilberto Pichetto Fratin, sembrano avere preso due strade divergenti. Da una parte, c’è l’accelerazione del Mit. Dall’altra, il manzoniano “adelante con juicio” del ministro del partito berlusconiano, dove Toti è cresciuto prima di mettersi in proprio con un altro ex ministro delle infrastrutture, Maurizio Lupi. Il freno principale sui materiali per riempire le vasche di cemento arriva dalla Regione dove politici e personale amministrativo temono di mettere il piede in fallo e si disputano le competenze con i ministeri e il commissario straordinario. Il summit del primo agosto a Roma fra Salvini, il suo vice Edoardo Rixi e Bucci è stato dedicato proprio al tema degli extracosti e dei ritardi che dovrebbero fare slittare il completamento dell’opera di un anno, al novembre 2027. Il quadro è complicato dalle altre opere colossali che gravitano sul territorio di Genova, come la Gronda che Autostrade per l’Italia (Aspi) dovrebbe realizzare al nuovo prezzo di 8 miliardi, raddoppiato rispetto al preventivo, e come il tunnel subportuale di 3,2 chilometri per 700 milioni di investimento dove la stessa Aspi ha avviato i lavori in marzo.

 

Webuild non ha voluto commentare la composizione delle riserve con l’Espresso. Ma la mossa ha due significati possibili. La prima ipotesi è che il progetto del consorzio avesse limiti tecnici. Dal punto di vista ingegneristico, l’opera non ha precedenti ed è in parte sperimentale. Nelle dighe costruite in modo simile i cassoni poggiano su fondali di una trentina di metri. Davanti alla Lanterna si scende fino a cinquanta. La differenza è consistente e si riflette sia sulle dimensioni enormi dei cubi di cemento armato necessari per sostenere la diga lunga 6,2 chilometri, sia sui lavori di scavo del fondale e di invasamento delle selle di appoggio. Il terzo cassone, affondato il 24 luglio dopo quello del 29 giugno e quello del 25 maggio, doveva essere zavorrato al momento dell’arrivo nelle acque del porto con materiale già sottoposto ai test. Non è stato così e, fino al riempimento, il rischio è che una mareggiata sposti la scatoletta da diecimila tonnellate. Raddrizzarla in mare aperto non è una passeggiata, anche se una tempesta a inizio agosto è improbabile e nessuno se la augura, nemmeno i gufi messi all’indice da Salvini. Però a fine settembre del 2023 una tempesta si è portata via venti metri dell’attuale diga all’altezza di Pegli. Con altri novanta cassoni di dimensioni crescenti da consegnare, uno ogni venti giorni in ogni stagione dell’anno, il problema è serio. Lo si è visto all’inaugurazione del 24 maggio 2024 con l’affondamento del primo e più piccolo dei cassoni a 25 metri di fondo rinviato in condizioni di mare appena mosso.

 

 

La seconda ipotesi, molto più consistente, è che la mania inaugurativa abbia accelerato i tempi in modo maldestro barattando le esigenze ingegneristiche con le necessità della propaganda. Il vicepremier leghista, che già aveva tenuto una prima inaugurazione della diga a maggio del 2023 con Toti, Bucci e Signorini, ha bissato quest’anno pochi giorni prima del voto europeo, dove peraltro la Lega ha tenuto un faticoso 9 per cento grazie all’effetto Vannacci e non alla campagna di taglio del nastro del suo leader, messo all’angolo da Giorgia Meloni sul ponte fra Sicilia e Calabria, un’altra opera che non ha precedenti comparabili sulla faccia della terra.

 

La bizzarria squisitamente italiana è che non solo i soldi della diga sono dello Stato, fra Pnrr, fondo complementare e fondo infrastrutture, più un’ottantina di milioni di contributo regionale, ma nell’azionariato delle stesse imprese realizzatrici c’è una presenza forte del ministero dell’economia. In Webuild la maggioranza è di Pietro Salini ma Cdp equity ha il 21,3 per cento. La stessa Cdp equity controlla Fincantieri con il 71,4 per cento. In sostanza, il rischio del costruttore rispetto a eventuali imprevisti è zero mentre, come accade per la quasi totalità degli investimenti in infrastrutture, le aggiunte al conto finale finiranno a carico del contribuente magari sotto forma di tagli a servizi essenziali come scuola e sanità.

 

Ma la percezione di questo rapporto causa-effetto non ha influito più di tanto sulle alternanze di governo nelle amministrazioni locali e certo in Liguria non si sono viste grandi differenze di indirizzo fra i governi orientati a sinistra e quelli più a destra.

 

Per il successore di Toti la situazione è complicata dagli equilibri interni all’esecutivo. Da qualche tempo aleggia la candidatura del viceministro delle infrastrutture, il leghista Rixi. Il suo pregio rispetto al presidente dimissionario, viareggino cresciuto a Marina di Massa, è di essere genovese. Ma un altro leghista alla conquista di una regione del Nord sembra improponibile per il partito di maggioranza relativa che ha semmai il problema di farsi largo nelle aree più ricche del paese. Rixi stesso si è chiamato fuori ma il pressing sul viceministro continua.

 

Un alto nome lanciato nella mischia è quello di Marco Scajola, 54 anni, totiano di ferro e figlio dell’ex ministro Claudio, attuale sindaco di Imperia dopo una condanna a due anni nel 2020 dichiarata prescritta lo scorso 9 luglio dalla corte d’appello di Reggio Calabria. Nella giunta Toti Scajola junior era assessore all’urbanistica ed è un sostenitore accanito del “modello Liguria”, ossia il modello Genova esteso da Levante a Ponente. Fin dalla liberazione di Toti, il primo agosto, si è messo al lavoro per la lista dell’ex presidente che non ha alcuna intenzione di mollare la presa su un potere, a suo avviso, perso ingiustamente. L’altro nome che si fa, non a caso, è quello di Ilaria Cavo, ex giornalista Mediaset come Toti, assessora regionale per sette anni e oggi deputata per Noi moderati, il movimento politico di Toti e Lupi. Ma non è facile che un Toti bis sotto diverso nome sia accettato dal resto del centrodestra e da Fdi in particolare.

 

Intanto a sinistra non dovrebbe avere rivali la candidatura del democrat spezzino Andrea Orlando. Meno certo è l’assetto della coalizione. L’ex Guardasigilli sarebbe la punta di lancia di un campo largo, forse larghissimo e profondissimo. Come la diga di Genova.