Agitano ombre, evocano fantasmi, danzano intorno al loro passato irrisolto. E ai nostri incubi: le bombe, i lutti, il terrore che confidiamo di esserci lasciati alle spalle. Più che sulla Costituzione i leader di governo sembra che abbiano scommesso sulla cospirazione. Evocata a giorni alterni, sempre a sproposito. Scherzano con il fuoco, nel Paese degli attentati neofascisti ai treni, delle Brigate Rosse, degli anni di piombo, della macelleria messicana del G8 e di Stefano Cucchi.
Dopo le manganellate, regolarizzano una stretta dispotica a colpi di decreti. Come il contestatissimo ddl Sicurezza, ora al Senato, su cui gravano l’ipoteca del Colle e le obiezioni di Osce, Consiglio d’Europa e Nazioni Unite.
Incuranti delle ragioni di chi è in piazza adesso, si insinuano tra le pieghe delle contraddizioni sociali, nei fatti ignorandole, se il modello, alla fine, è quello unicamente securitario di Caivano. Ampliano il divario tra cittadini e forze di polizia. Lasciano i primi ancora più distanti dal Palazzo a guardarsi l’ombelico del proprio disagio. Fingendo di tutelarle, espongono le seconde, anche nella tragedia di Ramy Elgaml (morto durante un inseguimento dei carabinieri a Milano il 24 novembre 2024) a un moto crescente di insofferenza. Una deriva pericolosa questa sì, dopo lustri spesi dalle divise a riguadagnare fiducia tra la gente. Una radicalizzazione delle questioni che obbedisce al calcolo del consenso a buon mercato. Che liscia il pelo alla parte più retriva dei corpi militari e civili. Finita nel tempo in minoranza, quella frangia nostalgica che era stata marginalizzata dall’interno delle stesse forze di polizia, grazie agli immani sforzi compiuti per convertire alla democrazia strutture rinate dalle ceneri di apparati compromessi, è ora vogliosa di riguadagnare spazio. Legittimata a farlo. Anche da uscite come quel «non lasciamoli respirare», riferito ai detenuti, pronunciato dal sottosegretario di Stato alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove nel pieno di un’emergenza carceri che si vorrebbe solo silenziare.
Le congiure presunte, come i trench, si portano su tutto. Si esibiscono nel cortile di una battaglia politica che fa di una fantomatica centrale unica della sinistra la madre di tutti i guasti del Paese, in asse con la galassia antagonista - che invece e da sempre, vede i partiti, tutti, come fumo negli occhi. Loro, i leader della maggioranza di governo, lì a rappresentarsi come baluardo a difesa della Patria, contro un pericolo terrorista che l’intelligence almeno da quel lato non avvista. E che le indagini su quel fronte non confermano. Tra ipotesi insinuanti, domande sospese, provocazioni a senso unico, le teorie complottiste prendono corpo nel bailamme dei talk e nei soliloqui spacciati per interviste. Con le bufale. Come quella dell’attacco dei manifestanti alla sinagoga di Bologna dell’11 gennaio scorso, mai avvenuto.
L’amplificatore unico della propaganda annichilisce le deboli voci su inefficienze e incapacità e quelle, isolate, su violenze, dissenso criminalizzato, diritti calpestati. A cominciare dalle flessioni inflitte alle militanti di Ultima generazione, Extinction rebellion e Palestina libera, fermate in questura a Brescia per sette ore durante una manifestazione pacifista, davanti alla sede dell’ex Breda, oggi Leonardo, il 13 gennaio.
Tanto per la persistente débâcle ferroviaria quanto per la teoria di reazioni scomposte delle forze dell’ordine con le manganellate ai cortei, gli abusi denunciati nelle caserme, la maggioranza diffonde l’orecchiabile ritornello “Tutta colpa della sinistra”.
Spicca nell’esecuzione, il timbro di Matteo Salvini. Perché riesce sempre a prendere la nota, sempre la stessa, che poi gli alleati inseguono, provando anche a sovrastarlo, ma senza successo. Con il podio ai Trasporti, un piede, il cuore e la testa all’Interno, non c’è baraonda che tenga. Dell’ensemble è baritono e kapellmeister, maestro di cappella, insieme. Del resto, ha dalla sua il talento del ponte, l’unico di cui si può star certi. Messina non c’entra, è quello che unisce un presente e un passato che vorrebbe tornasse in fretta, magari scalzando dal Viminale il fido Matteo Piantedosi, che poi si incarica di scendere sempre di mezzo tono.
Nell’infuriare del caos, anche duettando o battibeccando, ma sempre a distanza, con Giorgia Meloni, cui tocca studiare l’impegnativo repertorio da statista, la voce del Capitano finisce per imporsi in populismo. Disegna nell’aria quel filo di fumo che si fa cortina insurrezionalista. E autorizza, in un rincorrersi di divaganti suggestioni, ipotesi in libertà, stranianti dichiarazioni e mezze fandonie, la narrazione di un Paese assediato ora da orde di migranti, ora da un manipolo di guastatori, politicamente orientati ed eterodiretti, pronti a «devastare» trasporti, città, l’intero Paese.
Contro i quali serve una risposta carceraria a suon di norme sulla sicurezza, diventata un comodo sinonimo di ordine pubblico, a sua volta un rassicurante ombrello sotto al quale ricomprendere la sistematica compressione al diritto di esprimersi liberamente per strada. Di dire la propria e dissentire. Per Gaza, per il clima, contro le mega opere, gli scempi ambientali, nelle prigioni carnaio, ridotte a discarica civile, diventate da luogo di espiazione e rieducazione, confino obbligato di ogni vera emergenza sociale. La risposta sono articoli di legge, ritocchi continui al codice penale con 20 nuovi reati, branditi come unica leva, fuori dal circuito della ragionevolezza, della proporzionalità della pena, della sua applicabilità e del perimetro costituzionale.
Contro gli stessi sindacati degli agenti si tira fuori dal cilindro un’improbabile impunità per decreto. Salvo poi smentirla (incarico toccato al capogruppo di Fdi Galeazzo Bignami) e attestarsi su fiumi di parole e inchiostro per disegnare tra gli uffici del ministro Carlo Nordio e del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano una corsia preferenziale: archiviazioni lampo a carico di uomini in divisa finiti indagati per atti legati alla loro attività e forse mai più iscritti nel registro dei destinatari di avvisi di garanzia. Uno scudo penale che si frappone alla disastrata macchina giudiziaria. Una maionese impazzita che forse, come sostengono in tanti, serve a distogliere da altro. In alto e in basso: la riforma della magistratura, con la separazione delle carriere per condurre i pm al guinzaglio dell’esecutivo, ad esempio. O gli straordinari falcidiati agli investigatori antimafia e le trasferte passate da un setaccio sfibrante dai dirigenti chiamati a guardare più conti che verbali di indagini.
Una slavina repressiva, perseguita con ostinata caparbietà, sprezzante degli altolà del Capo dello Stato, costretto a intervenire con una durissima reprimenda sull’abuso di manganelli a febbraio 2024 sugli inermi studenti di Pisa. Ignorata, due mesi dopo quando toccò ai ragazzi de La Sapienza di Roma saggiare in cosa consista il monopolio della violenza statale. E che in un crescendo si è moltiplicata, come testimonia l’essenziale cronologia di queste pagine, fino a pochi giorni fa.
Nel rincorrersi delle sollevazioni contro l’orrore in Palestina dopo la carneficina di Hamas del 7 ottobre 2023, nei primi mesi dell’anno scorso, è stato un continuo di scontri ai cortei, di manifestanti picchiati. E, certo, anche, di poliziotti feriti, come i 9 a San Lorenzo a Roma (59 identificati per la violenta manifestazione per Ramy dell’11 gennaio) mandati a fronteggiare le piazze delle proteste e del disagio, dove l’impegno degli attivisti incontra anche la rabbia antagonista, mai comunque soverchiante.
Grandi e piccoli segnali di un clima che si fa pesante. Tollerata l’occupazione abusiva del quartier generale romano di CasaPound, si autorizza, sempre nella Capitale, non una manifestazione in ricordo delle vittime di Acca Larenzia, ma una cerimonia neofascista che ancora il 7 gennaio scorso trasforma una piazzetta del Tuscolano in una succursale di Predappio. Mentre la Digos, il 7 gennaio scorso, corre a identificare il giovane che passando grida «Viva la Resistenza». Normale prassi. «Pienamente regolare», come Matteo Piantedosi sostiene sia anche la degradante perquisizione personale di Brescia. «Pura formalità», come, all’inizio dell’anno scorso, liquidò con noncuranza, l’identificazione di 12 persone ree di aver portato un fiore per Aleksej Navalny sotto alla lapide che a Milano ricorda l’assassinio di regime putiniano di Anna Politkovskaya. Pur nella mitezza del prefetto tecnico prestato, con personale soddisfazione, alla politica, del resto, il programma d’esordio del titolare del Viminale, il 31 ottobre 2022, fu proprio un decreto di cui si è persa memoria. Pene fino a 6 anni di carcere per invasione di terreni, contro i rave party, un fenomeno che per qualche ora diventò la vera emergenza nazionale. Incipit rivelatore, come quel «carico che residua», ovvero i migranti lasciati a bordo della nave della Ong Mediterranea Saving Humans, nell’ottobre 2022.
A sostegno della congerie di norme piace sempre guardare al resto d’Europa che sulle proteste di piazza, come testimonia Amnesty International, ha ormai virato pericolosamente verso il pugno di ferro. Si diventa miopi però se c’è da affrontare la questione dell’anonimato garantito alle divise nei servizi ai cortei. In venti Paesi l’hanno risolta con un numero o una sigla identificativa a garanzia di tutti. In Italia le proposte sono finite nel dimenticatoio e le bodycam sono diventate uno strumento praticamente discrezionale, distribuito a piccole dosi, in una nebbia normativa sull’utilizzo.
Archiviata la pietosa mezza balla del chiodo per la Caporetto ferroviaria del 2 ottobre 2024, di fronte all’infittirsi di cancellazioni e attese sfibranti alle stazioni e sui vagoni, anche su questo versante è partita una sarabanda su complotti e boicottaggi. Opera, al pari di proteste e cortei, di frange insurrezionaliste, centri sociali, zecche comuniste. E di anarchici. Che tanto, a metterli in mezzo come un unicum indistinto non si sbaglia mai.
L’esposto di Ferrovie alla magistratura diventa allo stesso tempo la presunta notitia criminis sulla «destabilizzazione a livello governativo» e il suo fondamento. È bastato far sapere della denuncia dell’ad Stefano Donnarumma per lasciare in bianco per un giorno l’agenda dei guasti. Visto?
Nella vaghezza degli argomenti, sarà certo pura coincidenza: lo stesso 16 gennaio scorso, un incendiario pratese «aderente all’area antagonista radicale fiorentina vicina a circuiti anarchici», annotano prontamente i carabinieri del Ros, è stato arrestato per aver appiccato il fuoco alla caserma di Borgo San Lorenzo nella notte tra il 12 e il 13 gennaio. Era ai domiciliari con braccialetto elettronico in attesa di giudizio per aver sabotato una cabina dell’Alta Velocità, ma due anni fa, l’8 agosto del 2023. E ha già avuto inflitti due anni per altri sei raid analoghi compiuti nella seconda metà del 2022, a cavallo tra il governo di Mario Draghi e quello di Giorgia Meloni. Precedenti, certo, che immediatamente hanno autorizzato collegamenti forse un po’ frettolosi con l’attualità, tanto che la forzista Erica Mazzetti ha tagliato corto: «Le linee ferroviarie sono bersaglio degli anarchici, con esplicite finalità eversive». «Al netto dei cronici problemi infrastrutturali», ha dovuto però ammettere. Finora, due unici riscontri. Un cavo antifurto da bicicletta trovato appeso alla linea elettrica vicino alla stazione di Montagnana, Padova. Che fa dire alla leghista Mara Bizzotto che «i dubbi palesati da Fs trovano riscontro». E quello che potrebbe anche essere un tentato furto alla cabina ferroviaria della stazione Aurelia a Roma.
Eppure, a parlare di anarchici (vi dicono qualcosa Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda?), bombaroli e attentati ai treni, la memoria suggerirebbe cautela. E i cori sarebbe meglio lasciarli ai teatri lirici. Magari alla Scala dove sono ammessi i buu e dovrebbe essere lecito gridare anche «viva l’Italia antifascista», senza essere identificati come pericolosi sovversivi.