Attualità
18 novembre, 2025Vita da hikikomori: nessuna relazione fisica e in rapporto con il mondo solo via web. Il numero è in aumento e un film scandaglia ora questa realtà, tra malessere e ribellione
Il loro mondo è fatto di solitudine, confino nelle proprie stanze, nessun rapporto sociale dal vivo e silenzio, a parte il ticchettio dei tasti sul pc. Eppure in Italia il disagio degli hikikomori, nonostante i casi siano in forte aumento, poco alla volta sta uscendo alla luce: nascono associazioni, alcuni psicologi si specializzano sul tema, è allo studio una legge specifica e fiorisce una cultura sui ritirati sociali. La saggistica, il teatro e soprattutto il cinema trainano il gruppo: il 18 novembre è in un centinaio di sale italiane “Vas”, tra i primi film a mettere al centro della storia due hikikomori (ufficialmente il primo è stato “La chiocciola” di Roberto Gasparro, nel 2023) e ad aver coinvolto nella campagna promozionale il sodalizio “Hikikomori Italia genitori”. Protagonista della pellicola, prodotta da Al One e Meleagris Film e diretta dal napoletano Gianmaria Fiorillo, è un altro partenopeo, Eduardo Scarpetta, pronipote del grande drammaturgo di cui porta nome e cognome e tra i volti nuovi del grande schermo italiano.
È lui a incarnare il ruolo di Matteo, un ventenne che ha deciso di chiudersi in casa dopo una delusione amorosa. Sui social network entra in contatto con Camilla, (interpretata da Demetra Bellina), coetanea che vive a Milano, graziosa e agorafobica, che filtra ogni relazione attraverso il pc e lo smartphone. Fra i due nasce un legame di vittima-carnefice: arrivati al limite della loro solitudine proveranno a venirne fuori. Tutto girato in interni, e giocato sulla metafora dello schermo – di tablet, pc, smartphone e persino del videocitofono – il film gode di una regia sperimentale che usa il linguaggio delle comunicazioni social, tra meme e scrittura sincopata, come è frammentario e vorticoso il ritmo narrativo della vicenda.
Scarpetta a 32 anni è in un momento d’oro della carriera. Dopo essersi segnalato con “Qui rido io” di Mario Martone e la serie tv “Le fate ignoranti” per la regia di Ferzan Ozpetek, in questi giorni è al lavoro con Mel Gibson: sarà Paolo di Tarso in “Resurrezione di Cristo”, sequel del fortunato film del 2004. Ha scelto di partecipare a “Vas” anche per motivi personali: «Mi interessava studiare lo scarto tra chi si presenta in un modo mentre è all’opposto. Il mio personaggio e quello di Camilla sono al secondo stadio del disagio, quello in cui ti barrichi in casa ma ancora non rinunci ai contatti, esclusivamente a distanza: fanno finta di vivere, mostrano foto di viaggi che non hanno fatto e di piatti che non hanno mangiato, mentre vivono nel chiuso delle loro stanze».
Il lavoro al personaggio, spiega, è stato condotto studiando la sceneggiatura ma anche il fenomeno da vicino: «Il regista ci ha fatto conoscere una persona che era uscita dallo stato di ritiro sociale, un uragano di certezze che ci ha travolto con una comunicazione fittissima. È stato interessante. Il resto della preparazione è avvenuto sui dettagli, sui vestiti, sull’ambiente, segnato da disordine e scatole di cibo sparpagliate, dato che per il 99 per cento del film recito chiuso nella mia stanza. Esperienza forte».
Matteo non soffre solo di disagio nella relazione: «Lui è affetto da satiriasi, un’esigenza compulsiva di soddisfare esigenze sessuali: per questo contatta diverse donne. Ho messo a fuoco le sue motivazioni e le sue deviazioni e, al di là dell’agorafobia e dell’assenza di contatti con gli altri, penso che sopraggiunga una gelosia della propria solitudine, un amore per quella condizione. La stanza diventa il tuo mondo perché solo là hai il controllo di tutto».
Da un po’ di tempo Scarpetta è testimonial di una campagna dell’associazione “Diritto di stare bene” che intende dotare di psicologi le scuole e inserire nei programmi l’educazione sessuale, anche alle elementari: «L’origine dei disturbi va contrastata sul nascere, non quando sta per deflagrare. Così “Vas” è uno specchio in cui molti che si credono sani possono rivedersi, come il mare che ti ributta addosso i rifiuti che tu stesso hai buttato».
“Vas” è un termine usato in medicina, sta per Scala analogica visiva e serve a misurare l’intensità del dolore. Fiorillo, 35 anni, ha preso l’idea da un’esperienza autobiografica, un periodo vissuto a Parigi, città caotica che lo portò a momenti di fobia della socialità: «La Vas unisce metodo scientifico e soggettività ed è una metafora del chiudersi in se stessi: solo tu puoi conoscere quanto dolore hai. È un esame di autocoscienza volto a conoscere il proprio dolore, magari per superarlo. I due personaggi lo nascondono con la narrazione, cosa possibile grazie ai social e alla sfera virtuale», spiega. «Gli hikikomori non hanno tanto paura di uscire di casa ma del confronto con gli altri, ovvero della relazione tra uguali. L’intento autoriale è diffondere un rapporto sincero con l’altro, anche se la verità fa male. Man mano che la vita reale dei due protagonisti aumenta il loro dolore viene fuori ma, forse, proprio per questa via finirà».
E così? Può terminare il dolore di chi si chiude definitivamente in se stesso? Non ne è sicura Gabriella D’Urso, madre di hikikomori e attivista, tra le animatrici dell’associazione di genitori con figli che hanno scelto il ritiro sociale: «Può succedere che qualcuno decida di uscire, in alcuni casi per parlare del suo problema, ma le statistiche dicono che difficilmente riescono a risolverlo. Mio figlio Fred Allen a 17 anni entrò in crisi, ora ne ha 28 e si è rassegnato. Prima della pandemia è stato in giro per interviste e testimonianze, il Covid lo riportò dentro, come tutti, facendogli smarrire anche quello slancio. Negli ultimi tempi frequenta un centro che raccoglie ragazzi in difficoltà, fondato a Roma dall’ex colonnello Sergio De Caprio; là si dà alla falconeria, la relazione con l’animale è l’unica dalla quale non si sente tradito», racconta. Perché, secondo lei, la chiusura con gli altri nasce da una sfiducia filosofica e non da un disturbo clinico: «Molti possono finire col diventare depressi, insonni e darsi a pratiche autolesionistiche. Ma il fenomeno nasce da una volontà ideologica e non da patologie. I soggetti hanno deciso di farla finita col mondo perché non ne sopportano le ingiustizie, la corruzione o i disastri ambientali. Mio figlio ha raccolto una cultura profondissima sul web, è bilingue e traduce articoli sul tema, eppure non ha voluto concludere le scuole».
Già, le scuole. Di un’istruzione diversa potrebbe occuparsi il legislatore, anche perché i casi aumentano: secondo le stime sono tra i 100mila e i 150mila – in maggioranza maschi – i casi di ritiro sociale, senza particolari certezze dato che, dice ancora D’urso, c’è molto sommerso. «Con la deputata Daniela Ruffino di Azione stiamo promuovendo un disegno di legge che possa intervenire in alcuni aspetti del disagio inquadrando gli hikikomori: coinvolge l’istruzione a distanza, la possibilità di fare più assenze di altri e di venire interrogati da soli; so che in alcuni istituti, per via di dirigenti illuminati, sta succedendo. E ancora sportelli psicologici e aiuto alle famiglie: una donna in Piemonte si è suicidata per la condizione del figlio, sono stata sulla sua tomba anche se non la conoscevo. Questa sofferenza indicibile ci unisce».

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